Corriere di Como, 18 maggio 2021
Che al governo ci siano i sapienti è un ideale che attraversa la storia. Basterebbe sfogliare qualche pagina di Platone, che tra l’altro gode di una insperata attualità. Al governo più spesso vi sono i potenti, però, e anche quella potenza dei numeri che chiamiamo democrazia non è sempre garanzia di sapienza. I primi a dover essere sapienti sono proprio quei cittadini che eleggono i governanti, e questa esigenza di sapienza diffusa apre le porte ad una delicata opera educativa.
Essa, più è libera e multiforme, e più riesce a sfuggire alle maglie di una politica di indottrinamento. La storia del secolo scorso è lì ad insegnarci che certi progetti monolitici che mirano ad “educare” il popolo sono l’anticamera della dittatura che spesso il potente di turno s’arroga il diritto di organizzare proprio a nome del popolo: le piazze osannanti non sono mai un segnale di sapienza.
Negli ultimi decenni si è avuta la sensazione che al governo ci sia l’economia o addirittura la finanza. Il potere è il potere del danaro, del profitto, e quindi del conflitto. È indubbio che vi sia anche una modalità sapiente di coniugare l’economia, secondo logiche che guardano al bene comune. Ma più spesso accade che l’economia sostituisca alla sapienza una sua propria dinamica tutta fondata sulle leggi del libero mercato, in cui facilmente emergono traiettorie di accaparramento e sfruttamento, a tutto vantaggio di quei pochi che possono maneggiare i soldi e le risorse. Il mondo governato dall’economia è flagellato da continue crisi che creano nuove sacche di povertà e scombussolano i delicati equilibri di un mondo sempre più globalizzato.
L’improvviso irrompere della pandemia sulla scena mondiale ha portato al potere gli scienziati, a cui il popolo riconosce il sapere che è in grado di sconfiggere la malattia e di far arretrare il virus. Più precisamente dovremmo parlare di scienza e tecnica (da noi c’è il Comitato tecnico-scientifico). Si direbbe, infatti, che la scienza non basta: c’è bisogno di una sapienza che indaga ma anche di una saggezza che applica i risultati rendendoli fruibili nella realtà concreta. Naturalmente, è ancora necessario il filtro della politica, a cui comunque è demandato il compito decisionale e operativo di quella che Jacques Maritain chiamava «scienza praticamente pratica».
Il che significa che siamo di nuovo al punto di partenza. Per usare il linguaggio di Platone, al governo della città devono esserci i filosofi. E non ci sono, purtroppo. Il minuscolo coronavirus ha messo in evidenza che manca uno sguardo lungo che sappia andare oltre e insieme guidare le scelte dell’immediatezza pratica. E quando parlo di filosofi, non intendo riferirmi a svagati soggetti che camminano ad un metro da terra, quanto a uomini della storia, pienamente presenti al proprio tempo, che esercitano però l’arte della verità.
E siccome i governanti in democrazia li elegge il popolo, abbiamo bisogno di cittadini filosofi. In tutte le scuole superiori – anche in quelle tecniche e professionali – dovrebbe trovare posto l’insegnamento della filosofia. Non tanto lo studio della storia della filosofia, ma uno spazio autenticamente educativo in cui ciascun ragazzo sia messo di fronte alle domande essenziali della vita e sia aiutato a sviluppare il proprio pensiero critico. Perché non di solo digitale vive l’uomo.
Occorre davvero insegnare l’arte della verità!