Corriere di Como, 28 marzo 2017
Un ventenne pestato a sangue dal branco fuori da un locale notturno di Alatri, e poi morto per le gravi ferite riportate. Una valigia contenente il cadavere di una donna, affiorata sulla banchina del porto di Rimini. Sono solo gli ultimi due episodi di violenza finiti in prima pagina di giornali e telegiornali. Varianti di un campionario multiforme, che viene quotidianamente aggiornato rendendo sempre più possibile l’esito tragico della violenza, ovvero la sua naturalità e la nostra assuefazione. Per un curioso gioco etimologico, la parola «violenza» ha origine dalla stessa radice greca della parola «vita», anche se bisogna guardarsi dalla confusione, perché la violenza indica proprio la massima perversione dello slancio vitale, la sua deviazione dalla vita.
Ogni epoca della storia ha conosciuto forme di violenza anche più efferate delle nostre, ma nessun tempo come quello in cui viviamo ne ha favorito la pubblicizzazione. Il mezzo mediatico ha la forza di far conoscere, di far uscire dal privato, ma anche allo stesso tempo – mi si permetta il termine – la violenza di far dimenticare, di serializzare e quindi annullare. Un episodio di violenza assurge per poche ore a epifenomeno di tutta la violenza che c’è nel mondo. Lo si descrive con il vocabolario della eccezionalità, della massima atrocità possibile, quasi a identificarlo come caso di estrema disumanizzazione. Poi, il giorno dopo è sostituito da un nuovo episodio di violenza, e il linguaggio è paradossalmente lo stesso. Uno crede che finalmente si sia toccato il fondo della malvagità, ma non è così. In realtà, sta accadendo esattamente il contrario: la violenza risale la china della normalità, diventando inevitabile compagna di cammino della vita.
Questa dinamica genera quel fenomeno sociale che la scrittrice ebrea tedesca Hannah Arendt nel 1963 descrisse come «banalità del male». È vero, il riferimento è allo sterminio nazista, al totalitarismo che rende volontari anche gli inconsapevoli o i semplici ubbidienti (il libro della Arendt si riferisce al processo al gerarca nazista Adolf Eichmann), ma credo che la normalità della violenza nasca sul medesimo terreno, arruolando persone comuni che gradatamente si sono allontanate dalla responsabilità verso il reale. Il diffondersi di un relativismo etico e di un soggettivismo esasperato conduce al considerare la scelta violenta come una concreta opportunità per salvaguardare il proprio ego, di fronte al quale l’altro è una semplice variabile che è possibile calpestare o addirittura eliminare. Del resto, questa violenza può essere inflitta anche a se stessi, se dovesse essere necessaria a garantire un ipotetico standard qualitativo della vita (ahimé, al prezzo della morte). Insomma, davvero la violenza (bia) ha a che fare con la vita (bios). E per questo l’unica via per provare ad estirpare la violenza dal cuore dell’uomo o a frenarne l’impeto incontrollato, passa necessariamente dall’educazione alla vita, la propria e quella altrui.