SECONDA DOMENICA DI QUARESIMA – Anno A
C’è un alto monte su cui Gesù conduce Pietro, Giacomo e Giovanni. Non è il monte altissimo su cui il diavolo aveva condotto Gesù nel deserto delle tentazioni. Eppure, c’è una continuità tra questo deserto ed il monte della trasfigurazione.Il diavolo voleva costringere Gesù ad essere Dio, dimenticando però la scelta dell’incarnazione, dell’essere diventato uomo come noi. Ciò che non si realizza per l’istigazione di satana, viene invece donato dal Padre. Sul monte Gesù, senza nascondere l’umanità assunta, mostra la luce della sua divinità. Il Dio fatto uomo che ha vinto la tentazione di mostrare la sua divinità alla stregua di un mago che trasforma le pietre in pane, ora lascia intravedere la luce divina come un destino che aspetta tutti coloro che decidono di seguirlo. Sì, perché il monte Tabor è solo una tappa rivelatrice, non è un luogo terreno in cui piantare capanne. Anzi, è un monte alto da cui necessariamente scendere. La bellezza non sta affatto nel «restare qui» come vorrebbe Pietro, ma nell’alzarsi da quella strana posizione in cui la faccia è a terra, per scendere dal monte e camminare lungo la strada che conduce a Gerusalemme. Partire e patire, questo è il nostro unico scopo storico della trasfigurazione di Gesù.
Partire. È l’ordine che Dio dà ad Abramo: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò». Vattene adesso, lasciando qualcosa di certo come può essere una terra, una casa, una parentela, verso un punto omega che assomiglia tanto ad una incognita umana che ha la sua certezza solo nella promessa di Dio. Nel cammino di Abramo verso qualcosa il cui verbo resta coniugato al futuro («ti indicherò… ti benedirò… renderò grande il tuo nome»), un cammino che è lo stesso di Pietro, Giacomo e Giovanni, s’inserisce la tappa del Tabor. Colui che porta in disparte i tre discepoli sul monte è lo stesso Dio che dette l’ordine ad Abramo. Il futuro è diventato un presente. La voce, che intimava di partire, è diventata carne che cammina insieme all’uomo. Il mistero di un Dio lontano si è come dissolto in una compagnia umana. Eppure, tutto ciò non significa affatto traguardo. Il Tabor è solo anticipazione, attimo fuggente che rivela l’identità profondamente divina di quella compagnia umana. Dice ai tre – da questo punto di vista ben più fortunati di Abramo che dovette partire alla cieca – che il destino è luminoso anche se bisogna partire lungo una via che, per lunghi tratti, resta oscura. Occorre, ancora e sempre, partire. È il messaggio universale della Quaresima, che simbolicamente rappresenta questa vita. I tre si dimenticheranno il Tabor. Pietro dirà addirittura di non conoscerlo, quando Gesù finirà nelle mani degli uomini per essere crocifisso. La memoria di quella escursione in alta montagna tornerà dopo la risurrezione di Gesù, ora luminoso per sempre come nella visione. Ma per Pietro, Giacomo e Giovanni e per tutti gli altri che ascoltano, come noi, il racconto della trasfigurazione, è sempre tempo di partire.
E di patire. Lo abbiamo sentito nelle parole rivolte da Paolo a Timoteo: «Figlio mio, con la forza di Dio, soffri con me per il vangelo». Partire fu sofferenza per Abramo, perché egli dovette lasciare il certo per l’incerto. Partire dall’estasi del Tabor fu sofferenza per i tre apostoli, perché dovettero lasciare la luce in cui Mosé ed Elia conversavano con Gesù per camminare nella compagnia di un Dio ritornato ad essere scandalosamente uomo. Partire per il vangelo di Gesù è sempre soffrire per lo stesso vangelo. Con-soffrire, compatire («Soffri con me», dice Paolo a Timoteo) per una causa comune. Abbiamo tutti bisogno della luce che investì Pietro, Giacomo e Giovanni sull’alto monte. Luce – non dimentichiamolo – così forte, perché promanava da un eccesso di amore.