Alla vigilia del Triduo Pasquale, la liturgia provocatoriamente ci propone la figura di Giuda. Lo ha fatto ieri e anche lunedì con due brani del vangelo di Giovanni. Oggi ritorna in argomento con un passo del vangelo di Matteo. E fermiamoci, allora, a riflettere su questo Giuda così bistrattato dalla tradizione cristiana, tanto da assurgere a simbolo stesso del male. Giuda, in fondo, è anch’egli un apostolo, uno che Gesù chiamò a sé in modo particolare. Un apostolo che si dimostra un discepolo mancato. A fronte di una discepola riuscita quale Maria Maddalena, forse è utile riflettere un po’ sui motivi per cui si può, ancora oggi, diventare «traditori» del Signore.
Una nota previa. Nelle stesse ore in cui Giuda tradisce, scopriamo anche un Pietro rinnegatore e sappiamo pure che la fuga dei discepoli è pressoché generale. Un dato imbarazzante che i Vangeli non si sognano di nascondere, perché rivelano un aspetto importante di Gesù: egli guarisce i malati e risuscita i morti, ma non rende fanatici i suoi discepoli, non li plagia, li lascia completamente liberi. Anche di fuggire, tradire, rinnegare… Proprio come ci sentiamo anche noi: sappiamo che tradire, rinnegare e fuggire è nelle nostre possibilità umane, è un rischio connesso a quella libertà che Gesù Maestro e Signore non toglie ai suoi discepoli. Ecco perché Giuda c’interessa.
I Vangeli ce lo presentano negativamente sin dal principio:
- Giovanni mette in bocca a Gesù – subito dopo il discorso sul pane di vita – la frase «Uno di voi è un diavolo!»; e poi, nel racconto dell’ultima cena, si dice che «satana entrò in Giuda»;
- Sempre Giovanni dipinge Giuda come un ladro: «siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro»:
- La cupidigia di Giuda è al centro del racconto evangelico di oggi: Matteo ci mostra il traditore alle prese con un vero e proprio contratto («quanto volete darmi perché io ve lo consegni?).
- Possiamo segnalare il gesto del traditore: un bacio. Ovvero un segno di affetto ridotto a banale segno di riconoscimento. Luigi Santucci ha scritto – in Volete andarvene anche voi? – che «questa bocca che lo urta è l’inizio della passione del suo corpo: è la prima ferita».
- Infine, l’epilogo del suicidio, ovvero l’orgogliosa certezza che il tradimento sia irreparabile, il credere – insomma – che quel peccato non può essere perdonato (tra l’altro è proprio questo peccato che Gesù nei Vangeli identifica come «il peccato contro lo Spirito»: un peccato che non può essere perdonato perché è chiusura ermetica dell’uomo all’azione salvifica di Dio in Gesù Cristo).
Ce n’è quanto basta per capire come si diventa discepoli mancati, o meglio per cercare di non diventarlo!
All’origine c’è sicuramente una umana delusione perché Dio non è così come vorresti, o come tu credi debba essere. Giuda non è evidentemente il solo nei Vangeli a incarnare questa delusione. Ma in lui essa prende la strada della confusione, della megalomania, dell’ambizione personale. Forse è vero – come sostiene Giuda nel Processo a Gesù di Diego Fabbri – che egli non s’aspettava una condanna a morte, ma solo l’isolamento e l’imprigionamento di Gesù. Ma tale aspetto è comunque irrilevante: Giuda si era convinto che egli poteva mettere a tacere Gesù, perché non ne accettava il ruolo di rivelatore autorevole di Dio. Insomma, Giuda voleva correggere un Dio troppo esagerato, un Dio andato fuori dai parametri umani. Era convinto di fare il bene di Dio, mandando in prigione Gesù: questo è l’aspetto preoccupante. Attenti, perché questa tentazione viene proprio a coloro che sono commensali abitudinari con Gesù, non viene certo ai lontani. Quando crediamo di mettere a posto noi le cose, di essere più evangelici del Vangelo, e lo correggiamo annacquandolo o inasprendolo a nostro gradimento, ecco siamo sulla strada già percorsa da Giuda Iscariota, «colui che poi lo tradì».
C’è un secondo aspetto che fatalmente allontana dal discepolato autentico di Gesù, ed è l’attaccamento ai beni materiali, l’ingordigia delle cose. Giuda non capisce la preziosità dell’olio profumato versato sui piedi di Gesù, vorrebbe venderlo per dare ai poveri il ricavato. Giovanni lascia intendere che in realtà i trecento denari ottenuti con la vendita dell’olio di nardo sarebbero finiti nelle sue tasche, perché Giuda era un ladro. Tant’è. Colui che pensa a far soldi ammanta spesso le sue malefatte con motivazioni umanitarie… E quando va a trattare la consegna di Gesù, sulla bocca di Giuda c’è un «quanto»: tutto si può vendere, tutto si può comprare, basta misurarlo con il danaro. Giuda non è stato capace di tradire… gratis, anzi forse proprio la mancanza della gratuità l’ha portato a tradire. Stiamo bene attenti a questa sottile tentazione che s’insinua facilmente in una cultura predisposta a consumare e a inventare nuovi bisogni per produrre e consumare sempre più. Anche in questo caso, è una tentazione che colpisce le categorie più insospettabili: più i poveri che i ricchi, più quelli che non hanno e vorrebbero avere che quelli che hanno già troppo. Ecco perché è importante che il discepolo di Gesù comprenda bene che cosa significa essere povero: libero dalla dipendenza dalle cose per seguire più agilmente. Per Gesù è importante non tanto il «quanto» si possiede, ma il «come» si vive il rapporto con il tanto o con il poco che si ha.
Un ultimo aspetto che possiamo segnalare in Giuda, discepolo mancato, è relativo al dopo tradimento. Egli rientra in se stesso come il figliol prodigo della parabola, ma, invece di tornare dal padre con animo contrito, s’avvia a risolvere personalmente il suo rimorso. Ecco, il punto sta proprio qui: in Giuda non c’è pentimento, ma rimorso. In lui scatta un meccanismo perverso, per cui il peccato di tradimento è avvertito solo come diminuzione di se stessi e non come offesa dell’altro. Giuda ha vergogna di quanto ha fatto, così come Pietro piange amaramente sul suo triplice rinnegamento, ma mentre quest’ultimo cerca il volto di Cristo, Giuda se ne allontana sempre più. La dinamica peccato-perdono ha bisogno che il peccatore stia al centro, sotto lo sguardo di Gesù, come nel bellissimo racconto evangelico dell’adultera. Autocondannarsi come fa Giuda è l’estremo atto di un orgoglio ferito, che rifiuta la possibilità della salvezza. Non possiamo qui seguire la ricchezza di questa pista di riflessione, che ci porterebbe a scoprire quanto è geniale la «pietra» del perdono che Gesù ci scaglia addosso ogni volta che ci mettiamo in ginocchio davanti a Lui. Possiamo però concludere, rilevando come il discepolo non è un perfetto cristiano che non sbaglia mai, ma è un peccatore tenacemente ancorato alla misericordia del Signore. Non nel senso luterano di una grazia che rende quasi inutile il nostro impegno, ma nella direzione autenticamente cristiana di una grazia che rafforza la nostra fallibile natura umana. Insomma, il discepolo riuscito non è un perfetto discepolo (figura che qui in terra forse non esiste nemmeno), è soltanto un discepolo che, ogniqualvolta avverte di aver mancato, s’aggrappa al suo Signore. Con le lacrime di Pietro, e non con la corda di Giuda.
Per quanto possa valere, mi complimento per la limpidezza della ‘riflessione’, che rileggerò più volte e da cui, ti assicuro, traggo molto giovamento.
Al di là della stessa, mi piacerebbe,per quanto possibile, comprendere meglio il ‘ruolo’ di Giuda, perchè penso (consapevole di non averne certezza) che senza il suo tradimento non ci sarebbero stati l’arresto, il processo-farsa, la crocifissione, la morte e la resurrezione di Gesù (e tutto ciò che da questi fatti è derivato).
Bell’articolo, illuminante la differenza tra rimorso e pentimento per comprendere il significato del perdono.
Gentilissimo p. Clerici,
leggo sempre volentieri ciò che scrive e le esprimo tutta la mia stima.
Mi permetto solo di condividere con lei un’altra interpretazione possibile rispetto a quanto lei dice di Giuda Iscariota: “Giuda si era convinto che egli poteva mettere a tacere Gesù, perché non ne accettava il ruolo di rivelatore autorevole di Dio”.
Dai miei studi teologici ho ricavato l’impressione, in linea con la Scrittura, che la consegna di Gesù (di colui che sapeva innocente) era volta a spingerlo (Gesù), come per affrettare i tempi, verso l’affermazione piena del messianismo, che, per Giuda come per gli altri apostoli, era inteso in modo trionfalistico. Paradossalmente agendo così – consegnandolo – Giuda fece proprio manifestare Gesù come Messia, ma, inaspettatamente, nell’ottica del servo sofferente (nella sua morte-resurrezione).
Il suo peccato fu poi davvero quello da lei indicato, quell’autocondannarsi che dispera della salvezza di Gesù (nuova Legge). Giuda impiccandosi si mantenne nell’economia dell’antica alleanza (Dt 21,1-9; 27,25), ove si dice che il ‘sangue innocente’ – da lui non previsto – sarebbe dovuto ricadere su se stesso, senza entrare nella nuova.
Il mio Giuda