Conversione, un cammino che dura tutta la vita (prima parte)

Nei giorni scorsi (prima a Solbiate Comasco poi a Ponzate infine a Morbio Inferiore) ho trattato del tema della conversione, proponendo una riflessione che attinge abbondantemente all’esperienza e al pensiero di sant’Agostino. Presento qui la prima parte del canovaccio che ho seguito nella mia meditazione, riservandomi prossimamente di pubblicare anche la seconda parte. 

Tempo favorevole per la conversione: così spesso viene intesa la Quaresima. C’è del vero in questa definizione, nel senso che abbiamo bisogno di un calendario per inquadrare il nostro tempo così convulso, abbiamo bisogno di tappe e scadenze che mettano ordine alla nostra frenesia e correggano la distrazione che caratterizza il vivere quotidiano.

Ma la conversione non è affare da quaranta giorni all’anno. Gesù non sarebbe d’accordo. Egli ha posto la conversione al centro del vangelo. Quando inizia il suo ministero, dopo il tempo del deserto, condensa la sua predicazione in un monito – «convertitevi e credete al vangelo» – che si fonda su un dato di fatto – «il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino» – quasi a voler dire: la conversione è ora perché il Regno è qui. Da questo punto di vista ha ragione sant’Agostino che vede nella Quaresima una sorta di simbolo temporale di tutta la vita terrena: «La vita terrena è simbolicamente rappresentata da questi quaranta giorni» (s.205,1), e dice: «Questo è tempo utile per esercitare l’umiltà dell’anima» (s. 210,8,10). Per cui la conversione quaresimale ha un senso solo come occasione per riconfermare una scelta fondamentale della vita, per darle un rinnovato vigore. Le opere penitenziali della Quaresima – digiuno, elemosina, preghiera – sono al servizio della conversione, ma non ne definiscono per così dire l’essenza, non sono esse stesse la conversione, che altrimenti si ridurrebbe farisaicamente ad una pratica esteriore.

Facciamo allora un passo indietro, e valutiamo questa parola che fa talvolta capolino nel linguaggio comune. Si parla normalmente di “conversione” per indicare il momento in cui uno passa da un credo religioso ad un altro, oppure quando da forme di ateismo o agnosticismo giunge a professare una fede religiosa. Oggi, a dire il vero, c’è anche il fenomeno opposto – quello che potremmo chiamare della “a-versione” – dell’abbandono, magari anche polemico e astioso, di una determinata appartenenza religiosa: «Esco dalla Chiesa perché mi ha deluso!». Il proliferare del sacro in tanti gruppuscoli o sette favorisce anche il vagabondaggio spirituale, in cui le motivazioni dell’entrare in questa o in quella esperienza sono spesso emotive e superficiali o ispirate alle mode del momento e all’effetto traino degli amici. Insomma, la “conversione” viene molto banalizzata, senza contare che i personaggi famosi amano far conoscere al grande pubblico questi loro cambiamenti per creare un movimento di curiosità e attenzione mediatica verso di loro.

Se andiamo oltre questo significato, scopriamo la conversione come fenomeno che segna la storia delle religioni. Personaggi come il Buddha o lo stesso Maometto ne sono stati segnati. Ma questa parola non è assente nemmeno dalla storia della filosofia. Se posso permettermi solo un accenno, la conversione è al centro del pensiero di Plotino, filosofo del III secolo: gli esseri che si allontanano dall’Uno nella molteplicità ad un certo punto iniziano il ritorno – è l’epistrophé, la conversione appunto – in un cammino di progressiva purificazione, illuminazione e unificazione con l’Origine. È facile comprendere come sia attuale – anche solo nel linguaggio – questo messaggio filosofico, in cui l’uomo che vive nella regione della dissipazione e della dispersione ritorna verso l’unità della sua vita, verso la realizzazione di se stesso. Oggi si parla spesso di cammino di autorealizzazione della propria personalità. Viene subito in mente la parabola evangelica del padre buono o del figliol prodigo (come è universalmente conosciuta): essa descrive assai bene il percorso della conversione cristiana, che è essenzialmente diverso, però, da quello della conversione plotiniana o anche da altre forme di conversione religiosa.

Dobbiamo cercare di cogliere appunto l’originalità cristiana della conversione. Ci facciamo aiutare da sant’Agostino (Tagaste, 354 – Ippona, 430), la cui parabola umana e teologica è segnata proprio dalla conversione, non vissuta semplicemente come momento di adesione alla fede cristiana – fase che avvenne proprio qui a Milano nella Quaresima e Pasqua del 387 d.C. – ma come nucleo fondante di una esperienza cristiana che riguarda tutta la vita. Che cosa fu la conversione per uno come Agostino di Ippona? Fu inizialmente un cammino di purificazione e di illuminazione.

Un cammino di progressiva purificazione, innanzitutto. Egli da circa dieci anni era entrato a far parte della setta dei manichei, i quali sostenevano la tesi dell’opposizione tra due principi assoluti, il bene ed il male. È una specie di lettura della storia in bianco e nero, comoda, facile, ma che rischia di essere schizofrenica. Più attuale di quel che possiamo immaginare è la dottrina manichea. La ritroviamo in quello strano modo di giudicare le vicende umane che va per la maggiore oggi: ci sono comportamenti visti come espressione di un male assoluto da colpire senza pietà, e altri che sono traghettati o tollerati come un male minore quando non addirittura giudicati come un bene, un progresso, un diritto. La pedofilia è (giustamente) un abominio, ma pornografia e prostituzione godono di notevoli protezioni sociali. I bambini soldato sono un delitto contro l’infanzia, l’aborto invece è una conquista sociale della donna. Il dualismo esasperato di bene e male porta sempre ad eccessi e ad errori di valutazione…

Il peccato, poi, dalla dottrina manichea era attribuito al principio del male, per cui l’uomo non era veramente responsabile del male che commetteva. La soluzione – a cui Agostino aderì senza però trovare veramente una soddisfazione alle sue domande profonde – troverebbe oggi tanti entusiastici sostenitori in chi non parla più di peccato, ma si limita a dare la colpa del male alla negatività che ti impregna e da cui devi liberarti, magari ricorrendo anche a qualche ritualità magica: la responsabilità personale è annullata da questa forma di individualismo sfrenato, che incolpa sempre la società, la politica, la scuola, la televisione, internet e anche la Chiesa talvolta…

La conversione fu, poi, per Agostino un cammino di illuminazione. E fu proprio la filosofia di Plotino, quella del ritorno all’Origine, a offrirgli un appiglio per sfuggire alle aporie del manicheismo. Anche oggi assistiamo a qualche conversione di questo tipo, che coinvolge personaggi importanti del mondo della cultura. È una conversione filosofica, ancora profondamente orgogliosa, ma non è ancora la conversione cristiana. Agostino finì per scoprire qual era il punto debole di questa conversione filosofica, che pure lo interessò e fu un passaggio decisivo verso la fede: essa era ancora il frutto di una orgogliosa scelta individuale. È il saggio che dice: come sono bravo, ho trovato la via del ritorno, la via della salvezza! E magari guarda dall’alto in basso tutti gli altri uomini che – poveri ignoranti – questa via non hanno trovata… La conversione autentica, quindi, consistette per Agostino in un superamento di questo piano, e tale superamento avvenne con due movimenti che sono molto importanti anche per noi, se vogliamo davvero vivere in stato di conversione. (1. continua)

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