Sembra che le sale d’attesa non facciano più parte dei progetti delle nuove stazioni. Roba vecchia, dispendiosa, scomoda da gestire. Di sicuro su questa scelta – che le ristrutturazioni di grandi stazioni come Milano e Torino hanno già attuato – ha influito il fenomeno dei “senza fissa dimora” che in quelle sale, durante la stagione invernale soprattutto, cercano il tepore di una casa durante la notte o anche di giorno. C’è una filastrocca di Gianni Rodari – pubblicata anche sul Corriere della Sera di oggi – che recita così: «Chi non ha casa e non ha letto si rifugia in sala d’aspetto. Di una panca si contenta, tra due fagotti s’addormenta». Giustamente il poeta la chiama “sala d’aspetto” e non “sala d’attesa”. Lì normalmente ci si siede per aspettare un treno, o perché si è in anticipo o perché lui è in ritardo… Si aspetta, ovvero si compie un’azione stando fermi, mentre è qualcos’altro che si muove verso di me. L’attesa, invece, è un movimento attivo, con il quale si tende verso qualcosa o qualcuno. Il “barbone”, sdraiato sulla panca della “sala d’attesa” o “sala d’aspetto” che dir si voglia, non aspetta il treno e forse non attende nulla. Dice la filastrocca di Rodari: «Non trova lavoro, non ha tetto, di sera torna in sala d’aspetto: e aspetta, aspetta, ma sono guai, il suo treno non parte mai».
L’abolizione nelle nostre stazioni delle sale d’attesa rientra certamente in una operazione di risparmio. Di soldi e di spazio. Forse, però, oltre a risolvere brutalmente il problema della gestione dei “senza fissa dimora” e la loro difficile coabitazione con i passeggeri (qualcuno di essi magari si sarà lamentato e non sarà entrato più in quella sala dove bivaccava un “barbone” e dove, anche una volta uscito, era pur rimasto il suo… odore!), la scelta delle Ferrovie è quella di creare spazi aperti per tutti unitamente a nicchie per questo o quel club di élite di passeggeri. Salette private dotate di ogni conforto per chi paga, e fredde panchine per tutti gli altri.
Forse, però, la scelta dell’abolizione delle sale d’attesa nelle stazioni, in una società tecnocratica e frenetica come la nostra, è paradossalmente filosofica. Non c’è spazio per la sala d’attesa in stazione perché in questo mondo non c’è più tempo per l’attesa, che è diventata un inutile gingillo, che toglie addirittura tempo al… lavoro.
Ed è questo l’aspetto più grave di tutta la vicenda. Perché la vita, invece, ridotta all’osso, è solo attesa. Una grande sala di attesa del definitivo viaggio.