Corriere di Como, 6 novembre 2018
Nei giorni scorsi mi sono commosso nel vedere in rete un filmato che ritrae la strada che da Paneveggio sale al passo Rolle, segnata da una serie continua di abeti rossi sradicati o spezzati dalla forza del vento. Conosco molto bene quella zona per averci passato giorni bellissimi per più estati con i ragazzi della parrocchia. Secoli di rigoglio naturalistico atterrati in una notte di follia meteorologica.
Ora, la commozione che ho provato io da casa, o lo sconcerto, l’incredulità, e forse la rabbia che hanno manifestato gli abitanti di quei luoghi, sono reazioni specificamente umane. La numerosa colonia di cervi che abita stabilmente quei boschi così pregiati, disturbata e spaventata da quell’evento eccezionale, si è sicuramente già spostata in altre parti dell’immensa foresta di Paneveggio. Ma i cervi non si sono commossi come me. E nemmeno gli abeti che sono rimasti in piedi, forse proprio grazie agli alberi che davanti a loro sono caduti scaricando la forza del vento. La natura è una comunità complessa di esseri viventi, ma non è sicuramente un’entità unificata e assolutizzabile: così intesa, infatti, sarebbe una pura astrazione, il che costituirebbe un grave ostacolo proprio ai fini di quella azione di tutela della natura che resta in massima parte affidata alla cura dell’uomo: egli in natura resta l’unico soggetto pienamente responsabile della salvaguardia di se stesso, degli animali e delle piante.
Questa visione dell’uomo come custode della natura – che è quella presente, ad esempio, nella Bibbia – si contrappone alle visioni che in qualche modo divinizzano o idealizzano la natura stessa (dandole addirittura il nome di Gaia, la dea primordiale della terra nella mitologia greca) e pongono l’uomo accanto agli animali e alle piante in una posizione paritaria se non subalterna. Quasi che nella natura astrattamente intesa sia nascosta una sorta di personalità con una sua intelligenza, in cui l’uomo stesso è chiamato a disciogliersi se vuole essere veramente ecosostenibile. È una visione, questa, che trova le sue radici in dottrine panteistiche del passato e in una mentalità pagana e prescientifica – se la natura è divina, infatti, è negato ogni spazio alla scienza – e che hanno avuto una ripresa negli ultimi decenni entro le correnti New Age, che stanno all’origine dell’ambientalismo più estremo.
L’idea che un albero non debba essere tagliato, anche se mette a rischio la vita dell’uomo che ci vive accanto, perché «bisogna rispettare la natura» è una falsificazione dell’autentica difesa della natura, che può essere decisa solo dall’uomo. Ed egli è chiamato a proteggere prima di tutto le comunità umane dai rischi naturali e dai danni prodotti spesso dall’uomo stesso, nella sua arroganza prometeica o nella sua incuria irresponsabile. Non ha senso affidare questo compito alle pretese leggi eterne di una Natura sacralizzata e intoccabile. Bisogna mettere in campo conoscenza e scienza, e solo l’uomo è dotato di questa qualità. Anche se poi una notte di vento può metterlo in ginocchio. Scriveva Pascal: «L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante».