TREDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno B
La pagina del libro della Sapienza ci ha parlato di Dio come colui che «ha creato tutte le cose perché esistano… ha creato l’uomo per l’incorruttibilità; lo ha fatto immagine della propria natura». Parole che acquistano un significato nuovo se lette alla luce di Gesù Cristo. Infatti, la parola «imcorruttibilità» può essere compresa ancora entro una cornice spiritualistica: c’è una componente nell’uomo – l’anima – che non muore; c’è qualcosa della vita umana – gli affetti veri, l’amore, l’amicizia – che la morte non può distruggere e che continuano ad abitare in noi anche quando una persona non c’è più con il corpo. L’immortalità che Gesù ci ha regalato non è semplicemente questa sensazione di una sopravvivenza di una parte di noi alla morte fisica; riguarda anche il corpo, che risorgerà, ad immagine del corpo risorto di Cristo, per esistere per sempre in una dimensione di eternità: Cristo è ora alla destra del Padre con il suo corpo e noi lo raggiungeremo con il nostro corpo. Quel missionario che diceva ad un indigeno di un’isola sperduta della Polinesia: «Non è forse la nozione di spirito che abbiamo portato al vostro pensiero?», si sentì rispondere: «No, non ci avete portato lo spirito. Noi conoscevamo già l’esistenza dello spirito… quello che ci avete portato è il corpo». Proprio così e la pagina evangelica di oggi ci mostra un Gesù tutt’altro che etereo e spirituale, ma continuamente a contatto con la gente che lo stringe da ogni parte. Vi sono due miracoli, la guarigione della donna affetta da emorragia e la risurrezione della figlia di Giairo. Ebbene, il capo della sinagoga si getta ai piedi di Gesù e lo invita ad andare a casa sua a imporre le sue mani sulla figlioletta gravemente malata. Quando vi giunge, ella è già morta e Gesù la riporta in vita prendendola per mano. La donna affetta da emorragia, per guarire, tocca il mantello di Gesù e anch’ella compie, poi, il gesto di gettarsi ai suoi piedi. È come se l’evangelista Marco volesse farci comprendere che la fede di questi personaggi passa attraverso un incontro fisico con Gesù, e Gesù stesso risana attraverso il suo corpo. Vi sono tanti altri episodi nei vangeli che possono confermare questa dinamica: addirittura, per guarire un cieco, Gesù usa la sua saliva unita alla terra e ne spalma gli occhi del cieco. Questa fisicità della salvezza cristiana indica il grande valore che il cristianesimo dà al corpo. Il nostro mondo, che sembra idolatrare il corpo, in realtà lo schiavizza, lo abbruttisce, lo degrada, lo usa come strumento di piacere o come macchina per produrre risultati.
Ma c’è un secondo aspetto importante che possiamo sottolineare. Gesù ha dei tratti umani di grande sensibilità: mentre tutti lo stringono, si accorge di colei che ha toccato un lembo del suo mantello, suscitando anche la reazione un po’ divertita dei suoi discepoli; mentre annunciano a Giairo la morte di sua figlia, egli trova parole di incoraggiamento e consolazione; quando la ragazza torna in vita, Gesù è preoccupato unicamente di lei e del suo… appetito («disse di darle da mangiare»). Sono tutti tratti che dicono la concretezza e la delicatezza con cui Gesù vive i suoi rapporti umani. Egli non si limita a salvare l’uomo, ma lo fa con una sensibilità attenta alle persone che di volta in volta incontra. Gesù si accorge di essere stato toccato, perché è attento ogni volta a ciascuno come se in quel momento fosse l’unico. Ebbene, se vogliamo essere cristiani che presentano il volto di Gesù, dobbiamo imparare questa delicatezza dell’annuncio, questa attenzione cordiale alle singole persone. La grazia di Dio è a caro prezzo, certo, ed è salvifica se incontra accoglienza da parte della libertà dell’uomo, ma è sempre una grazia «graziosa», e, se noi la rendiamo graziosa, forse incontra più facilmente accoglienza!