Corriere di Como, 19 dicembre 2017
Quanto tempo deve passare perché la memoria sia elaborata in storia? Credo sia difficile rispondere a questa domanda con un numero preciso. Troppi fattori giocano a complicare la questione. Il caso concreto di questi giorni è il ritorno in Italia delle salme di Vittorio Emanuele II e della consorte Elena del Montenegro, gli ultimi reali Savoia, morti in esilio dopo la débacle della seconda guerra mondiale e il referendum che portò all’istituzione della Repubblica Italiana. Sono passati settant’anni: troppi o troppo pochi? È giusto averli riportati in patria con un volo di Stato nel santuario di Vicoforte in Piemonte, o sarebbe più appropriato che le salme riposino nel Pantheon a Roma? Lo spettro delle risposte a queste domande è molto ampio: si va dal risentimento della Comunità ebraica e dallo sdegno dell’Associazione dei partigiani sino alla soddisfazione dei nostalgici della monarchia e alla pacatezza dei sostenitori della pacificazione nazionale. Tutti portano un elemento di comprensibile spessore umano, legato a considerazioni ineccepibili inerenti la memoria storica di questo o quel particolare atto dell’ultimo vero re d’Italia: c’è chi sottolinea la sua debolezza di fronte a Mussolini e chi ricorda che fu proprio lui a favorirne la caduta.
Come dicevo, c’è una memoria che fatica a diventare storia. I fatti sono ancora troppo vicini? Bisogna aspettare che muoiano tutti i coevi ad un fatto per poter procedere alla riconversione storica dei suoi protagonisti? Qualcuno pensa che sia così. Io credo, invece, che debbano essere i vivi ad elaborare le proprie ferite, senza rinunciare affatto a proclamare la verità di un’offesa, a chiamarla con il suo nome e ad attribuirla a chi di dovere, ma sapendo andare oltre con quella qualità che è tipicamente umana – la coscienza – e che permette di attingere ad uno sguardo interiore portatore di una sapienza superiore ed equilibrata. La storia aiuta a leggere con una distanza meno ideologica i fatti e le persone, alla luce della conoscenza più approfondita dei contesti. Non dimentica certo la gravità di alcune decisioni nefaste – come furono, ad esempio, nel 1938 quelle leggi razziali che tante sofferenze provocarono a uomini e donne innocenti – ma vi riconosce la fragilità umana deformata dal calcolo ideologico e dalla smania di potere.
E questa lettura non può essere fatta da chi non c’era, perché chi non c’era non può elaborare una ferita che non ha direttamente sperimentata. Chi c’era deve lasciare in eredità a chi non c’era non solo la memoria indelebile dei misfatti, ma anche la loro elaborazione storica, che non è affatto dimenticanza ma è sapiente dosaggio di memoria e storia, di presa diretta e di riflessione.
Il genio cristiano ha coniato un atteggiamento che attiene alla sfera delle relazioni personali, ma che può essere riletto in una chiave storica, più ampia anche se non meno faticosa. È il perdono. Qualcuno, anche se erede di re, dovrebbe imparare a chiederlo. E qualcuno, anche se erede di vittima, dovrebbe disporsi a concederlo (soprattutto a delle salme). Solo così in eredità alle nuove generazioni si lascerebbe un mondo che, senza rinunciare alla verità, dà prova di non incancrenirsi sulle proprie idee.