Per dirci Buon Natale… impariamo dal presepe. Proprio così. Un presepe cristiano parla da solo, ripete il Vangelo arricchito con la nostra vita: ci siamo anche noi tra quelle statuine.
C’è una parte del presepe che, dal punto di vista plastico, è senza dubbio la più difficile da incastonare nella scena della Natività, ed è il cielo. Per forza, il cielo non ci appartiene, non sappiamo come distenderlo sopra la terra, e faremmo bene a lasciare totalmente a Dio almeno il cielo nel nostro presepe. Limitiamoci ad una distesa d’azzurro punteggiata di stelle, senza avere la pretesa di riempire anche il cielo con le nostre cose, i desideri, le idee: anche l’arcobaleno è di troppo nel cielo di Natale… È già nostro lo scenario terreno, da colmare con tutti i colori variopinti della nostra umanità, e lì possiamo mettere tutti, proprio tutti, perché il Figlio di Dio nasce per ogni uomo. Ma il cielo, no, lasciamolo alla disarmante semplicità di Dio!
Ci sono poi gli angeli, che sono la congiunzione tra il cielo e la terra. Di solito si fa in modo di trovare il posto almeno per un angelo. Ma sarebbe bello che nel presepio ce ne fossero tanti quanti gli abitanti della casa, quasi a significare che siamo amati e protetti, uno per uno, da Dio. Dico così, perché Dio ha pensato un angelo custode per ciascuno di noi. Un diavolo a testa non c’è, ma un angelo sì.
Nella stalla ecco l’asino e il bue. Queste due umili bestie – che qualche “purista” dell’ultima ora vorrebbe togliere dalla scena della Natività – rappresentano la Provvidenza nel suo concretizzarsi… umano. Nell’epoca delle centrali termiche e dei climatizzatori – segno dell’ingegno dell’uomo per vincere le bizzarrie del tempo – l’asino e il bue rappresentano l’essenzialità dell’inaspettato. Sono il segno che Dio interviene nella nostra vita con un’efficacia che supera la nostra fantasia e insieme si serve di ciò che è umile e quotidiano.
Abbiamo lasciato al loro posto Maria e Giuseppe? Dico così perché ci sono presepi moderni in cui queste due statuine sono sparite per lasciare il posto a «simboli» di un amore universale. È sicuramente meglio fare il contrario e nascondere i nostri simboli dentro quelle due statuine di una madre e di un padre, per ricordarci che della famiglia (quella tradizionale, quella vera) abbiamo tutti bisogno, visto che anche il Figlio di Dio, pur nato povero, non ha voluto farne a meno.
Due statuine, sin da piccolo, mi hanno sempre colpito: il dormiglione e lo stupito. Esse rappresentano i due atteggiamenti possibili di fronte al Natale. Il dormiglione non è uno che, siccome dorme, non ha sentito l’annuncio, ma uno che lo ha sentito e non vi ha trovato niente che lo mettesse in movimento, per cui si è messo a dormire. Il dormiglione è un po’ la caricatura dell’europeo cristianizzato: ode l’annuncio del Natale, ma pensa tra sé «già sentito, già visto, già sperimentato, tanto non cambia nulla». Per il dormiglione il Natale è una colossale finzione, per cui ha deciso di non parteciparvi: è sulla scena, ma dorme. Tutt’altro atteggiamento è quello dello stupito, il quale si lascia coinvolgere dalla novità perenne del Natale: Dio si è fatto bambino. A noi non sarebbe proprio venuto in mente, perché per noi bambino è il contrario di Dio. Dio dice potenza, mentre bambino dice debolezza; Dio dice sovranità assoluta, mentre bambino dice dipendenza totale. Dio bambino è una contraddizione, e lo stupito è stupito proprio per questo, perché finalmente si trova di fronte a qualcosa di inaspettato, di finalmente donato. Non un prodotto umano, ma un regalo divino. E nemmeno qualcosa, ma Qualcuno. Lo stupito, dunque, sta sulla scena della Natività, dentro il presepe, in piedi, con le braccia aperte, la bocca spalancata, gli occhi luminosi. Più che cambiare il mondo, desidera cambiare la sua vita e s’aspetta che a innescare questo cambiamento sia proprio quello strano Dio Bambino.
C’è una cosa che colpisce nel presepe, ed è l’armonia dei rapporti: tutti fanno la loro parte, stanno al loro posto e nessuno sembra avere tempo da perdere per criticare o giudicare l’altro. Che sia questa la «pace in terra» di cui parlano gli angeli? Che sia un suggerimento banale per cominciare a costruire nel nostro piccolo un tessuto di pace? Ciascuno stia nel posto in cui Dio l’ha messo, faccia la sua parte, non desideri la parte dell’altro, non la invidi, non si senta né più piccolo né più lontano. È nel presepe, fa parte del grande affresco della salvezza, Dio lo ama, lo vuole con sé per l’eternità. Questo gli deve bastare e lo deve far sentire importante, unico. Pensate quale suggerimento per le nostre famiglie, per la nostra comunità, per la Chiesa, per la società, per il mondo!
C’è ancora qualcosa del presepe che dobbiamo controllare. Sono le luci. Un presepe che si rispetti ha la sua bella illuminazione. Solitamente accanto alle statuine mettiamo delle luci intermittenti che si accendono e si spengono. Rappresentano molto bene la nostra vita, che è un po’ accesa e un po’ spenta. È una vita intermittente la nostra, lo sappiamo, eppure la vogliamo mettere dentro il presepe al cui centro sta Gesù. Nella stalla, però, insieme a Gesù Bambino, San Giuseppe, la Madonna, il bue e l’asinello, non mettiamo una luce intermittente, ma una luce fissa, sempre accesa. Quando anche le lucine intermittenti sono spente, il presepe – tutto il presepe, e non solo la stalla – rimane illuminato grazie alla luce che emana da Gesù, luce delle genti, luce che mai si spegne. È essenziale che la luce provenga dalla stalla: non siamo noi che illuminiamo Gesù, ma è Lui che ci illumina, e ci illumina anche quando noi siamo momentaneamente spenti e la scena è al buio.
Forse è proprio questa sicurezza che vogliamo augurarci a vicenda quando ci diciamo Buon Natale. La sicurezza di una Luce divina che illumina la nostra drammatica intermittenza. Come conquista umana di questa sicurezza il Natale proprio non funziona. Il Natale, quello di Gesù, funziona solo come dono. Allora… Buon Natale a tutti!