Corriere di Como, 29 settembre 2020
La cronaca continua a proporci nuovi episodi di violenza efferata. Persone che uccidono e poi si tolgono la vita, famiglie distrutte, pestaggi, accoltellamenti, femminicidi e altro ancora. Ogni vicenda è a suo modo unica e la furia omicida sembra dotata di grande fantasia, ma poi il risultato è sempre lo stesso. Così come le stesse sono le protesi informative che vengono utilizzate per far camminare le notizie, spesso a servizio di una esigenza insieme di semplificazione e di spettacolarizzazione.
Dapprima c’è l’ideologia. Ovvero quel calcolo mentale in cui la realtà è costruita a partire da una idea preconcetta e non l’idea formata a contatto con la realtà. Sembra un gioco di parole, invece è una inversione letale. I soggetti – che, se defunti, non hanno più voce in capitolo e non possono più difendersi – diventano semplici espedienti per una campagna a favore o contro, in una estenuante lotta tra un “ismo” e l’altro. Le vittime e gli assassini rientrano, cioè, in un comodo stampino ideologico, e servono per rinfocolare gli animi e alimentare il dibattito sul “di chi è la colpa” o sul “che cosa si poteva e doveva fare” o sull’identificazione del sostrato sociologico in cui il singolo episodio violento ha potuto affondare le sue radici. Ecco allora spuntare i vocaboli classici – quali razzismo, sessismo, egoismo, ecc. – usati come contenitori ideologici per incasellare la realtà. Non sto dicendo che queste non siano categorie di pensiero utili all’analisi del fenomeno, ma, brandite come bastoni o scimitarre, servono soltanto ad aumentare un clima di litigiosità permanente.
La seconda protesi informativa è la retorica. In un mondo che ha costantemente bisogno di modelli ideali, le povere vittime si prestano efficacemente a rivestire i panni dell’eroe, e qui entra in gioco l’abilità retorica che attinge al serbatoio verbale dell’epica per pennellare figure positive da porre nelle nicchie dell’Olimpo sociale. Sia chiaro, spesso le vittime sono davvero eroi, ma a maggior ragione la retorica rischia di rovinarne l’immagine, chiudendola in una schematizzazione posticcia che paradossalmente mette in ombra proprio quello spessore umano che meglio sarebbe evidenziato da una narrazione più parca e trasparente. In fondo anche la retorica è al servizio di una lettura ideologica della realtà.
Spesso la comunicazione affidata a questo registro dimentica una dimensione umana che invece non andrebbe saltata a piè pari o affidata troppo frettolosamente al regno della privatezza. La violenza bruta o l’insana follia dell’assassino o dell’aggressore infliggono la profonda ferita del dolore per la perdita tragica di un uomo, una donna, un padre, una madre, un figlio, un fratello, insomma, di una persona cara a qualcuno che, vivo, continua a piangerla. Una ferita che spesso rimane aperta per molto tempo, se non è addirittura insanabile. Anche questo è un fatto che deve diventare in qualche modo notizia. E non deve essere dimenticato né minimizzato. Non va certo spettacolarizzato, ma ha bisogno di un suo tempo e di una narrazione appropriata. Invece, quando un episodio di violenza si aggiunge al precedente, il rischio dell’assuefazione è forte. L’unico antidoto è riconoscere che ogni volta la violenza è una ferita aperta anche nella mia umanità.
L’informazione relativa agli episodi di violenza e uccisione ci assale con un’altra violenza: quella della “news” che si consuma in fretta in pochi giorni. Non si narra invece in modo appropriato e solidale il “vuoto incolmabile” che lascia un segno per sempre nelle persone care a chi muore (parenti, fidanzati, amici, compagni di lavoro…). Non sopporto questo tipo di informazione spettacolare e spesso retorica! Condivido la conclusione del colpo di testa: “L’unico antidoto è riconoscere che ogni volta la violenza è una ferita aperta anche nella mia umanità.”