Colpo di testa 152 / Umiltà e fiducia, antidoti dimenticati

Corriere di Como, 25 febbraio 2020

Paura, panico, psicosi. Mentre la diffusione del coronavirus in Italia si evolve da un minuto all’altro, siamo tutti in qualche modo vittime di una di queste parole, che misurano la gradazione della nostra impotenza. D’accordo, bisogna dare ascolto alla scienza, ma purtroppo non sempre il messaggio è univoco. Il Covid-19 è davvero «poco più di un’influenza», oppure minimizzare in questo modo è «una scemenza di dimensioni gigantesche»? Il risultato è che il disorientamento s’aggiunge all’ignoranza e genera paura.

Un fenomeno complesso – la paura – eppure riconducibile essenzialmente al rapporto che c’è nell’uomo tra il conosciuto e l’ignoto. Conoscere ci dà sicurezza, ma apre paradossalmente un nuovo spazio a ciò che resta al di là della presa della nostra ragione. Le scoperte scientifiche offrono conferme, ma generano anche aporie. Un po’ come nei bambini, le risposte sono il preludio a nuove domande. E se ciò che non conosciamo ancora minaccia la nostra vita – o anche solo abbiamo la sensazione che sia così – si crea lo spazio per la paura, che è un potente meccanismo di difesa. La paura in fondo è un salvavita. Eppure, è anche vero che essa rischia di rosicchiare il piacere della vita, annullando quello slancio che è l’avventura, etimologicamente l’andare incontro alle cose che verranno. E se è così, la paura diventa un anestetico che addormenta la bellezza della vita.

Tornando alla paura del coronavirus, essa è una tipica sindrome post-moderna, dovuta a quella rassicurazione che il progresso indubitabile delle scienze ha regalato all’umanità. O forse ha solo creduto di dare, perché di fatto noi uomini del ventunesimo secolo siamo più insicuri, magari proprio a causa della pretesa di certezza che ci è stata inculcata. Intanto, ci siamo accorti che il progresso indiscriminato ha pure contribuito a impoverire il pianeta. E soprattutto abbiamo scoperto che la natura è piena di nuove invisibili minacce alla nostra salute personale. Tutte le volte che ne compare una sconosciuta – e non abbiamo gli anticorpi e non possediamo un vaccino – scatta il meccanismo della paura, che può sfociare nel panico o in una vera e propria psicosi, se la non conoscenza è accompagnata da difetti nel meccanismo di comunicazione (divenuto più tecnologico, incontrollato, individuale, e quindi esposto alla bugia).

Forse è possibile correggere il tiro, recuperando dal bagaglio dell’umanità due atteggiamenti che troppo frettolosamente si erano seppelliti come cifra dell’uomo prescientifico. Innanzitutto, l’umiltà. La conoscenza – e quindi a maggior ragione la scienza – deve essere umile, cioè capace di comunicare il suo sforzo e i suoi traguardi insieme all’abisso dello sconosciuto e alle sfide future, così che l’informazione sia meno saccente e più credibile.

Il secondo atteggiamento è la fede. Certo, una fede in Dio aiuta a superare la paura, magari in un affidamento ad una provvidenza superiore. Ma qui intendo soprattutto quella fede che sorregge la stragrande maggioranza delle nostre azioni quotidiane. In fondo, viviamo fidandoci continuamente. In questi giorni vale la pena fidarci di quanto ci viene chiesto, non senza ragione, da coloro che sono molto più esperti di noi, anche se nemmeno loro sanno tutto su questo nuovo antipatico virus che si sta prendendo gioco della nostra sicurezza.

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