Corriere di Como, 8 ottobre 2019
Il caso del ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti è solo l’ennesimo episodio in cui qualcuno scoperchia l’imbarazzante cronologia di tweet, commenti e messaggi – alcuni decisamente offensivi – allo scopo di usarli nell’infuocato agone politico. I censori trovano sempre il consenso di un numeroso pubblico, tra i quali forse si annidano anche alcuni che hanno già patito la medesima gogna mediatica o avrebbero materiale sufficiente per crearne una, solo che ci si avventurasse nel loro fornitissimo archivio digitale. Ma c’è chi tenta una difesa del malcapitato di turno, non tanto approvando le sue prese di posizione, ma invocando una sorta di prescrizione delle opinioni.
In fondo, quando ha scritto quelle cose, era giovane e immaturo e scalpitava come un puledro, magari addirittura nel recinto politico opposto a quello in cui ora milita. Ma oggi è davvero pentito? Ha realmente cambiato opinione rispetto a quanto aveva scritto o è solo divenuto più prudente nell’esprimerla ed è più sgamato nell’uso dei social? La domanda attinge alla sfera dell’essere e del pensiero recondito, non espresso cioè pubblicamente, e pertanto è difficile rispondere.
Nella società dell’apparenza, però, non basta più dire di aver chiesto scusa agli interessati, perché si può averlo fatto per semplice opportunismo al fine di mantenere una poltrona attuale, insidiata dalle parole scritte magari dieci anni prima. Bisognerebbe dimostrare che il cambiamento è sincero, ma è un risultato difficilmente ottenibile: se in passato, infatti, le posizioni politiche erano praticamente inossidabili, assistiamo oggi ad un turbinio di conversioni che tolgono significato alla parola «cambiamento». Ho sentito nei giorni scorsi un politico scafato difendersi dall’accusa di aver cambiato casacca più volte con una teoria francamente discutibile: lui sarebbe fermo da sempre sulle stesse idee, e sarebbe stato costretto a cambiare partito per poterle difendere, visto che a cambiare i suoi valori era stato di volta in volta il partito a cui apparteneva. Sembra la teoria in cui anche un orologio rotto, almeno due volte al giorno, mostra l’ora esatta!
Ritornando all’invocata prescrizione delle opinioni espresse nella Rete, credo che non sia possibile concederla troppo facilmente, perché – come dicevano già gli antichi – «verba volant, scripta manent» – e i social sono le moderne lavagnette, che hanno il vantaggio (o forse è uno svantaggio) di non cancellarsi mai, visto che lo spazio digitale è praticamente infinito e la memoria è inesauribile. Non esiste conversione nel mondo perfetto e disumano della comunicazione globale, in cui la velocità di scrittura è inversamente proporzionale alla durata di ciò che si è scritto: basta un attimo per postare una passione magari passeggera, e quelle parole sono subito eterne!
Ecco perché invocare la prescrizione delle opinioni mi pare una scorciatoia. Cambiare, sia chiaro, è possibile e talvolta pure auspicabile, perché non c’è peggior prigione per la coscienza che la perseveranza in un errore. Ma cambiare non è arte da palcoscenico. Intanto, impariamo a tenerci ben chiuso il cassetto interiore dei nostri pensieri, soprattutto quelli più improvvisi. Scriverli lì dentro e non sui social può pacificare il presente e salvarci il futuro.