Corriere di Como, 22 gennaio 2019
Che rapporto abbiamo con il nostro telefonino? È uno strumento nelle nostre mani, o siamo noi ad essere condizionati pesantemente dalla sua presenza dentro le nostre vite? Appurato che si chiama telefonino, ma quasi non serve più (solo) per telefonare, la questione del suo utilizzo è complessa. Mi ha colpito la notizia che arriva dal carcere di Poggioreale a Napoli, dove un detenuto quarantenne ha pensato bene di ingoiare un telefonino, introdotto non si sa come nella sua cella, per paura che venisse trovato da un imminente controllo della Polizia Penitenziaria. Mi piace immaginare che il telefonino potesse assicurare a quell’uomo una specie di fuga quotidiana, attuata senza segare le sbarre e calarsi con le lenzuola. Il telefono, insomma, come strumento di evasione, come occasione di libertà oltre le regole e i permessi, quasi fosse un lasciapassare digitale per eludere i vincoli della detenzione.
E mi sono accorto che, forse, anche a noi che in carcere non siamo, il telefonino serve per evadere da una quotidianità, che consideriamo troppo smunta per colorare ogni volta la vita e il suo trantran. Ci permette di conoscere, di apparire, di essere importanti in un mondo artificiale di cui creiamo noi i confini e che è comodo, perché ci assicura un’agevole staticità: è un mondo immenso, che però sta dentro un piccolo display ed è a portata di dita, e si può accendere e spegnere a piacimento dalla poltrona di casa o sul treno o in fila all’ufficio postale. Queste sono le mirabolanti possibilità che ci offre il telefonino, a patto di rimanere entro la categoria degli strumenti di cui disponiamo.
Eppure la civiltà digitale ha per così dire inventato strumenti che ci governano, e il telefonino è sicuramente tra questi. Invece di farci evadere, rischia di metterci in carcere, omologandoci ad un linguaggio e ad una consuetudine in cui prigioniera è proprio quella libertà che vorrebbe sviluppare. C’è poca ragionevolezza in quelle manie sincopate che crea, in quell’armeggiare frenetico su una tastiera, nel rimanere incollati ad uno schermo che si riempie di tanto vuoto colorato e spesso imbecille. E ci costringe a farlo spesso, sempre più spesso, per non rischiare di finire disconnessi da quel mondo fittizio, che però è l’unico che esiste dentro il telefonino.
E magari, proprio mentre siamo connessi, la vita reale scorre da un’altra parte e noi la perdiamo. Capita così che il telefonino ci faccia cliccare per solidarietà lontane e ci impedisca di vedere le persone lì vicino e ci renda distratti ai loro bisogni, alle loro domande, alle loro sofferenze. Ricordo sempre la storiella dei due giovani che s’incrociano frettolosamente per strada e l’uno dice all’altro: «Ci si vede su Facebook!». Insomma, il telefonino come evasione sì, ma dall’incontro.
Tornando al nostro carcerato di Napoli, dopo un mese in cui ha cercato di tenersi nascosti i suoi forti dolori addominali, portato finalmente in ospedale, gli trovano nello stomaco un telefonino, con tanto di batteria al litio, che non è riuscito a… digerire. Dopo l’intervento chirurgico, sembra non sia in pericolo di vita. A lui è andata bene. Chissà se andrà bene anche alla nostra vita, se ce la siamo fatta ingoiare da un telefonino!