Corriere di Como, 18 settembre 2018
La comunicazione è la cifra del nostro mondo. Eppure la malattia sociale più diffusa oggi è una sorta di sordomutismo di ritorno. Diventando adulti, cioè, si perde poco a poco quella qualità che contraddistingue l’uomo: la parola. Mi direte: ma se il mondo è un vociare unico, una babele di suoni che s’intrecciano e si sovrappongono! Esatto, proprio così. Manca la parola, ovvero quella dinamica dialogica in cui il parlare ha bisogno dell’ascoltare. Nell’itinerario educativo si spendono molte risorse per insegnare a parlare (magari in più di una lingua) ma si ha poca attenzione alla pedagogia dell’ascolto. E i risultati si vedono. Basta assistere ad uno dei tanti talk-show televisivi (con qualche eccezione, sia chiaro) per accorgersi che ciascuno dei partecipanti ha da urlare all’altro la sua verità e l’altro lo interrompe quasi subito e urla a sua volta la sua verità e, se anche sta in silenzio, non ascolta per niente, perché, quando l’interlocutore comincia a dire la sua, egli sta già pensando a come e cosa rispondere.
Si dice che un bambino impara a parlare proprio ascoltando le parole che sente dire dagli altri, a cominciare da quelle pronunciate dalla mamma e dal papà. Se è sordo, fatalmente sarà anche muto. Ma questo sordomutismo è ancora più grave quando, appunto, è una malattia sociale di ritorno, che colpisce persone adulte che non sono state educate all’ascolto. La relazionalità – ovvero la facoltà di entrare in dialogo con gli altri – è una dimensione decisiva per costruire tessuti di umanità. La sua mancata realizzazione nella trama della vita genera personalità isolate, che sono da considerarsi socialmente sordomute, anche se individualmente dotate di un fiume di parole a senso unico.
Leggevo nei giorni scorsi un articolo che presentava i dati di incremento dell’utilizzo sui telefonini delle app che permettono di registrare e soprattutto di dare comandi vocali evitando la digitazione. Proprio negli stessi giorni ascoltavo la pubblicità di una casa automobilistica che promuoveva il nuovo optional presente sulla sua macchina: la capacità di parlare, rispondendo alla voce e alle domande del guidatore. Paradossale: proprio mentre gli uomini rischiano di perdere la loro vocazione dialogica, ecco che a parlare e ad ascoltare sono strumenti come i telefoni e le automobili.
Non voglio certo nascondere l’utilità in alcune occasioni di queste applicazioni, ma dà da pensare questo trasferimento agli oggetti della qualità umana per eccellenza dei soggetti. Devo confessare che un certo sviluppo della robotica mi preoccupa. Mi ha impressionato il disegno di un bambino delle elementari che ho visto su una rivista, in cui al posto della cattedra nell’aula scolastica c’era un grande computer parlante, con tanto di occhi e bocca (ma senza orecchi!), il che rendeva inutile la presenza dell’insegnante. Sarà frutto della fantasia di uno dei nostri piccoli cresciuti a pane e tablet, ma è una prospettiva drammatica. Ancora una volta, però, a segnare la differenza con una voce metallica c’è la ricchezza dell’ascolto che sa rendere la parola umana bella e imprevedibile.