Corriere di Como, 1 maggio 2018
Finire nel gregge è considerata una sciagura per la mentalità individualista del nostro mondo post-moderno. E per certi aspetti lo è. Tanto è vero che, poi, coloro che si vantano di essere usciti dal gregge, nemmeno si accorgono che sono già finiti dentro un altro gregge, ancora più pericoloso proprio perché inavvertito. Nella nostra cultura radicata nel cristianesimo, l’immagine del gregge di pecore richiama «il pastore, quello bello» (andrebbe tradotta così l’espressione più comunemente nota come «il buon pastore»). E in effetti l’immagine evangelica oggi non piace. Ad un uomo che vuole essere libero, il gregge dà la sensazione di un tentato intruppamento entro uno schema indistinto e uguale per tutti. Come sosteneva Friedrich Nietzsche, la moralità è l’istinto del gregge nel singolo, ovvero il suo assoggettamento a determinate direttive fissate dalla società.
A dire il vero, l’icona evangelica parla anche di mercenari e di lupi, e la nostra epoca che va fiera della libertà degli individui conosce bene questi personaggi. Sono così nemici tra loro che potrebbero addirittura unirsi per formare un governo di scopo, i mercenari con i lupi, perché agli uni non interessano veramente le pecore e le lasciano libere di fare quello che vogliono, mentre agli altri interessano proprio le pecore libere allo stato brado, ma per disperderle e mangiarsele.
Faccio queste considerazioni guardando la nostra società sfilacciata, che si muove a pecore sparse, con grande numero di pecoroni e con il notevole perfezionamento tecnologico e digitale di mercenari e lupi. Con la valida scusa che si vuole essere liberi, autonomi, indipendenti, si finisce con il non appartenere più a niente e a nessuno. L’esito di questa libertà per così dire degregizzata e depastorizzata è spesso la solitudine, ma sicuramente il rischio più comune è quello di una atavica conflittualità: chi non appartiene è incapace di vivere insieme e di dialogare con uomini e donne di altre appartenenze.
Resterebbe da sondare anche l’altro concetto fastidioso per l’uomo d’oggi – che si ritrova anch’esso nella famosa immagine evangelica – ed è quello di «recinto». Il gregge dentro il recinto è la quintessenza della omologazione e dell’asservimento. C’è del vero in questo timore dell’uomo post-moderno e vi sono interi popoli che mostrano l’esito delle politiche di indottrinamento. Eppure la libertà umana ha bisogno di un recinto proprio perché si possa esercitarla umanamente, e non in quella versione assoluta che fa credere a ciascuno d’essere un padreterno. Possiamo sorridere con quella barzelletta che mostra un matto arrampicarsi sul muro del manicomio, e domandare ad un passante: «Quanti siete lì dentro?».
L’applicazione di questa breve riflessione è molteplice. Ma perché si fugge dal pastore «quello bello»? Forse proprio perché non è bello. È magari un buon pastore, ma è così noioso, triste, arrabbiato, anche un po’ arrogante e autocentrato. Non è insomma «il pastore, quello bello», che fa desiderare alle pecore di appartenere ad un gregge.