Corriere di Como, 20 marzo 2018
Nome (non di fantasia) Costantino. Come il grande imperatore romano. Lui però è rumeno, e oggi ha un grosso problema: è già morto quindici anni fa. Non c’è dubbio che sia così, perché vi è un documento del 2016 che lo certifica. Uno che è morto, poi, ha solo due anni di tempo per provare che è vivo. Ma sappia che è non è facile riuscirvi, dopo che è stato messo nero su bianco che è morto… “Carta canta”, così recita il motto dell’unico sodalizio veramente universale, quello dei burocrati. La storia di Constantin Reliu ha davvero dell’incredibile. L’uomo, 63 anni, titolare di una piccola attività in Turchia, è stato rimandato in Romania perché i suoi documenti risultavano scaduti: quando ha cercato di rinnovare il passaporto, gli hanno comunicato che egli non esisteva più dal 2003 e gli hanno messo sotto il naso il certificato di morte. Reliu ha chiesto che fosse annullato. Ma che cosa era successo? Come ha raccontato al quotidiano rumeno Adevarul, egli era andato in Turchia nel 1992 per cercare lavoro; ritornato in patria nel 1995, scoprì che la moglie lo tradiva e così nel 1999 prese definitivamente la strada della Turchia. In assenza di notizie del marito, la moglie chiese l’emissione di un certificato di morte, forse anche per potersi risposare. A Reliu hanno pure misurato la distanza tra gli occhi per vedere se corrispondesse a quella della fotografia sul vecchio passaporto, ma alla fine è arrivata la mannaia della burocrazia, con quella sicumera che ha il sapore del ridicolo: il tribunale di Vaslui, nel nord della Romania, ha respinto l’appello del morto perché è passato troppo tempo da quando il certificato è stato emesso.
Il tribunale avrebbe potuto annullare il certificato di morte, con la motivazione che il soggetto era stato supposto morto mentre era evidentemente vivo. Oppure avrebbe dovuto appurare la falsità della identità del soggetto, che dichiarava di essere Constantin Reliu e invece non lo era. No, la comicità della decisione sta tutta nel dichiarare che un certificato, dove c’è scritto che uno è morto, vale molto di più di una persona, che dice di essere viva. O peggio ancora, che il valore della attestazione personale di vivere scade irrimediabilmente dopo due anni che è stato emesso il certificato di morte, mentre il certificato stesso, passati due anni, acquista una validità praticamente incontrovertibile. Trionfo della carta sulla carne.
È presumibile che la decisione del tribunale rumeno tenda a evitare un inquietante possibile risvolto ad una vicenda già singolare: se il primo marito è ancora vivo, che ne sarà del secondo matrimonio della moglie? Mors tua vita mea, deve aver pensato la donna. Ma se uno, dichiarato morto, ritorna in vita sfuggendo alla perentorietà di un certificato legale, l’adagio rischia di tornare indietro come un boomerang: vita mea mors tua.
La vicenda di Constantin Reliu è davvero kafkiana. Ma rivela una preoccupante dipendenza della nostra società dai documenti. Nascere e morire sono due certificati, e vivere è un incartamento patologico che sta nel mezzo. Serve continuamente una carta d’identità per attestare che io sono io. Non basto più io.
Davvero Kafkiano…
Io sono rimasta di sasso quando ho sentito che esiste un certificato di esistenza in vita!