Croce, la logica del chicco di grano

QUINTA DOMENICA DI QUARESIMA – Anno B

Vincent van Gogh, Seminatore al tramonto, 1888

La logica del chicco di grano non è certo quella della filosofia greca. Forse si aspettavano altro quei Greci, che pure erano animati dal grande desiderio di «vedere Gesù». Si aspettavano un uomo imperturbabile, e invece eccoti un uomo che non teme di confessare che la sua anima è «turbata». Si aspettavano parole di saggezza, ispirate almeno alle correnti più culturali dell’ebraismo, e invece sulla bocca di Gesù trovano riferimenti al servire, al perdere, al morire in vista dell’eternità. Proprio la logica del chicco di grano, più adatta a parlare a gente che vive a contatto con i campi e con il sudore della fronte. Una legge del mondo vegetale – diremmo noi oggi con il linguaggio della scienza – e Gesù viene a proporla come legge del mondo spirituale: il seme deve essere interrato, perché altrimenti il sole lo svuota del suo prezioso contenuto seccandolo; e, una volta finito sotto terra, nel buio, il chicco di grano deve marcire, ovvero deve perdere la sua forma e metabolizzare la sua sostanza a contatto con l’humus del terreno. Per il seme c’è un’alternativa al morire, ed è il rimanere solo, mentre l’esito inatteso di quel marcire sotterra è il portare frutto. È ovvio che, se il seme avesse una coscienza, dovrebbe odiare la propria vita di chicco di grano per produrre una spiga carica di tanti chicchi di grano. Così è di chi segue Gesù: deve odiare la propria vita in questo mondo.

Quei Greci se ne saranno andati via un poco allibiti… Eppure, la legge che Gesù richiama è, scientificamente parlando, la legge della vita. Viene da obiettare: la vita di un seme, di un essere che non ha coscienza di marcire, che è gettato nel terreno e non ha gambe per svignarsela… Per Gesù e per i suoi discepoli, invece, e anche per noi se vogliamo essere discepoli di Gesù, si tratta di camminare incontro alla morte, di seguire una logica che sembra andare contro la vita, di seguirla incarnata in una persona che si è lasciata uccidere e mettere sotto terra. Il dramma è questo. Si capisce che Gesù sia turbato. E anche noi faremmo bene ad esserlo, altrimenti significherebbe che la logica del chicco di grano l’abbiamo assimilata come un bel raccontino bucolico, ma che non ne abbiamo tratto le conseguenze per la nostra vita.

Gesù vivrà sino in fondo questa logica: sarà il chicco di grano che muore sotto terra, essendo innalzato sulla croce; e non resterà solo, perché dalla croce attirerà tutti a sé. Dobbiamo finalmente pronunciarla questa parola – croce – nel nostro itinerario quaresimale. Ormai essa è sullo sfondo. L’importante è che comprendiamo come la croce sia un evento complesso, che non richiama solo il momento della morte ma anche quello della gloria. A questo mira, nella pagina evangelica odierna, la menzione della voce dal cielo che parla di glorificazione di Gesù, e che Gesù dice essere una voce pronunciata non per lui ma per noi. La vicenda del chicco di grano non si riduce ad un marcire sotterra, nascosto allo sguardo di tutti, ma si rivela nell’ondeggiare di una spiga davanti agli occhi di tutti. L’amore vissuto come dono porta molto frutto e vince la solitudine, che è la vera morte, il vero annientamento della vita umana.

Ciò che dovrebbe farci paura nell’immagine usata da Gesù è che «se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo». L’amore è proprio quell’evento che, nella vita di ciascuno di noi, squarcia quel chicco gettato in terra che noi siamo e manda in circolo la nostra sostanza interiore e la mette a contatto con gli altri e genera nuova vita, anche se la forma di quel chicco non c’è più. L’amore travasa il meglio di noi dentro un altro e produce molto frutto. Penso al matrimonio in cui questo si verifica carnalmente e in cui è necessario che ci siano, per così dire, due chicchi di grano che accettano di morire l’uno per l’altro affinché la Chiesa s’arricchisca della spiga di una nuova famiglia. Penso al sacerdozio ministeriale e alla vita consacrata, in cui il chicco di grano accetta la sfida di una solitudine carnale per essere linfa e nutrimento di tante spighe non sue. È bello avvicinarsi alla Pasqua con questa visione delle nostre croci unite già misteriosamente all’unica croce di Cristo.

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