Tabor, iniezione di bellezza

SECONDA DOMENICA DI QUARESIMA – Anno B

Raffaello Sanzio, Trasfigurazione (1516 – 1520)

Per capire la scena evangelica della trasfigurazione, bisogna essere andati qualche volta in alta montagna, in una giornata dai contorni netti, in cui l’azzurro del cielo si staglia sui verdi prati e magari si riflette nel blu cupo di un laghetto incastonato tra le rocce. Il silenzio ti permette di sentire il tuo respiro affannoso, il rumore dei tuoi passi. Per un attimo – ma è un attimo che riesce a durare – ti riconcili con te stesso. A Pietro, Giacomo e Giovanni non parve vero di arrivare su un alto monte nella compagnia di Gesù e, sopraffatti dalla fatica per la salita, essere portati ancora più in alto in una visione luminosa. Come trascinati dentro il cielo, nell’anticipazione di una definitività che qui sulla terra è irraggiungibile.

L’evangelista Marco non sa come descrivere l’esperienza, a lui raccontata quasi sicuramente da Pietro dopo diversi anni: parla di trasfigurazione, di vesti candide, ma candide di un bianco che sulla terra non può essere prodotto da nessun lavandaio. Un’esperienza di Dio a partire da un uomo: non è forse questo il cristianesimo? Non è Dio che, essendosi fatto uomo, si fa incontrare alla pari, eppure è capace di trasfigurarti l’anima con una luce celeste? C’è una parola che descrive questa esperienza, ed è la parola «bellezza», ed è la seconda parola della Quaresima che viene subito dopo il «deserto». Che il deserto non fosse sinonimo di triste esperienza di sacrifici inumani, lo dice la destinazione del viaggio in cui Gesù conduce con sé i tre discepoli: un alto monte, una luce sfolgorante, vesti candide, conversazioni ultraterrene, sino al desiderio ingenuo espresso da Pietro di stare sempre lì in quel posto, di fissare la tenda lì perché lì «è bello». Può capire tutto ciò chi in alta montagna ha incontrato Dio nella sua immensa semplicità, chi si è lasciato cullare dal contorno dei monti, chi ha desiderato che l’attimo dell’arrivare in vetta non finisse mai.

Ecco, questa seconda domenica di Quaresima ogni anno ci ricorda che la bellezza è il senso della vita, l’unico vero senso dell’essere cristiani. Sei cristiano perché il Vangelo dice cose giuste? Sei cristiano perché la Chiesa racchiude in sé la verità dell’uomo? Sei cristiano perché tutto si spiega meglio che a non esserlo? Sei cristiano perché temi che ti accada qualcosa a non esserlo? Può darsi, ma questo non spiegherebbe affatto due millenni di cristianesimo, talvolta così poco trasparente, così intaccato da miseria e da peccato, così impregnato di meschinità, non ultima la mia, la tua, la nostra… Se non fosse che «è bello» essere tra le braccia di Cristo, sapendo così che il nostro Dio ha due braccia umane che possono stringere a sé, io penso che il cristianesimo finirebbe – sarebbe già finito – nel numero impressionante di dottrine e religioni che dicono cose giuste e fanno affermazioni doverose, ma non salvano l’umanità. Pietro, Giacomo e Giovanni scesero dal monte – perché dalle vette bisogna scendere, finché stiamo su questa terra – con la certezza che essere discepoli di quel Gesù, così umano come loro eppure splendente in modo divino, «è bello». Certo, le alte vette si alternano con le pianure, noi lo sappiamo bene, ma pochi minuti in vetta nella bellezza di Cristo valgono e sostengono secoli di pianura, proprio come un abbraccio o un bacio possono riempire l’amore di tutta una vita.

Sì, la bellezza è il vero unico motivo dell’essere cristiani. Oggi sono tenuto a ripetervi quest’unica verità. E se noi cristiani di oggi – come di ogni epoca, del resto – siamo poco credenti e poco credibili, è proprio perché abbiamo dimenticato il monte Tabor, lo abbiamo misurato con il tempo dell’orologio e ne abbiamo tratto la conclusione – sbagliata! – che non vale la pena di giocare tutta la vita sul fascino di qualche minuto di luce. Non affasciniamo più, perché non ci lasciamo più affascinare. Ci trasciniamo in un tran tran quotidiano, cercando faticosamente di incastrare le tessere del vangelo dentro un quadro che del vangelo non ha più nemmeno un solo colore. Vedo tante energie di bellezza sprecate, tanto entusiasmo spento, tanta generosità asfissiata dal calcolo meschino del proprio tempo. È come se avessimo una durezza della vita da sopportare – ed è così, non si può negarlo – ma non sapessimo e non volessimo illuminarla con la luce della speranza che ci deriva dalla fede.

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