Corriere di Como, 20 febbraio 2018
Carnevale e Quaresima. Forse è una questione che interessa ormai poche persone di età avanzata, ma vale la pena parlarne, perché è un fatto di costume e forse di cultura (altra parola, questa, che riguarda pochi, ahimè). Nel nostro territorio, misto comasco-milanese, accade che il confine tra il Carnevale e la Quaresima, a distanza di pochi chilometri, sia definito da due calendari diversi: i “romani” festeggiano il martedì grasso e poi entrano nel tempo quaresimale con il Mercoledì delle Ceneri, gli “ambrosiani” invece prolungano il Carnevale sino al sabato grasso e poi con la domenica iniziano anch’essi la Quaresima. La maggioranza, sia chiaro, fa un po’ quello che vuole, secondo le comodità e le voglie, anche perché – come diceva la mia nonna già qualche anno fa – «urmai l’è carneval tut l’ann». E non aveva torto a dispiacersi per questo nuovo andazzo, perché il «semel in anno» aveva un profondo senso sociale, che oggi si è perduto nel marasma di una individualistica misurazione del tempo a lume di naso, per cui ciascuno ha il suo calendario, e guai a chi glielo tocca.
I due carnevali sono dovuti al modo di contare i 40 giorni della Quaresima. Sei settimane (esattamente quelle del rito ambrosiano) in effetti fanno 42. Ma nelle domeniche non si digiunava e quindi si perdevano 6 giorni. Ecco la necessità (attuata nel rito romano) di recuperare 4 giorni e iniziare così la Quaresima di mercoledì. Si dirà: cose antiche, di più di 1500 anni fa, che quindi potrebbero essere risolte con un briciolo di malleabilità. In effetti, ricordo che subito dopo il Concilio Vaticano II (che pure aveva confermato la validità del rito ambrosiano), qualcuno pensava che l’adozione almeno di un unico calendario sarebbe stato un provvedimento di buon senso e risolutivo di tutta la confusione che invece si generava qui da noi per la Quaresima, così come per l’Avvento. Oggi onestamente servirebbe a poco, perché il tempo non è più scandito dai rintocchi del campanile, né a Milano né a Como. Basta notare che anche la domenica dopo il sabato grasso è ritenuto terreno fertile per carnevalate di recupero, perché ognuno si ritiene in diritto di organizzare quello che vuole e trova un pubblico sempre pronto a cogliere al volo, in ogni periodo dell’anno, l’occasione per divertirsi, mangiare e bere.
Come impedirlo, del resto? Il problema, semmai, è l’assoluta mancanza di un senso di rispetto civico (e mi rendo conto, anche solo scrivendo la parola, come sia una richiesta anacronistica). Lo si domanda giustamente per le minoranze religiose e perché non dovrebbe essere attuato nei confronti di quella che, almeno numericamente, è comunque ancora la confessione religiosa maggioritaria in Italia?
Poi – e l’osservazione è squisitamente sul piano culturale – stiamo attenti a salvaguardare le nostre radici, il retroterra di quella storia che ci ha costituiti in un popolo. A furia di asfaltare tradizioni, ci troveremo senza una strada per camminare, senza quel passato di cui il futuro ha assolutamente bisogno.