VENTISEIESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno A
Si sente talvolta dire: «Sono credente, ma non praticante». Che cosa vuol dire? Spesso significa soltanto: non vado a Messa tutte le domeniche. Ma sotto sotto si nasconde un problema più grande, che potremmo riassumere con una domanda: è possibile non praticare qualcosa in cui si crede? Lasciatemi andare ancora più in profondità nella mia domanda: che cosa significa credere? Già, perché la prospettiva cambia, se il credere non è un semplice credere qualcosa ma è il credere in qualcuno. Ci sono in effetti cose che crediamo che non ci domandano una particolare pratica, e possiamo quindi dirci credenti non praticanti. Il tifo per una squadra di calcio può arrivare a pratiche esagerate, ma può anche essere vissuto senza aver mai speso un euro e senza aver mai visto una partita dall’inizio alla fine e senza essere mai entrati in uno stadio. Già, ma la fede cristiana non è un semplice credere qualcosa, ma è essenzialmente un credere in Qualcuno!
Provo allora a fare la stessa domanda iniziale in un altro modo. Che effetto farebbe sull’amata la dichiarazione dell’amante che le dice: «Io sono innamorato di te… ma non praticante»? Si può forse essere innamorati non praticanti? Non è ridicolo anche solo pensarlo? Ebbene, la fede cristiana nasce necessariamente da un fascino personale che assomiglia molto all’innamoramento e domanda una pratica di vita che assomiglia molto all’amore. L’amore è la pratica dell’innamoramento, è il fare che segue al credere, è il permanere in un impegno che consegue alla bellezza intravista in un volto umano. Il credente cristiano non praticante è come un innamorato che non ama. Ma allora viene il sospetto che non sia nemmeno veramente innamorato, altrimenti non potrebbe far altro che praticare il suo amore! In effetti è proprio così. Il problema di oggi non è l’affievolirsi di una pratica cristiana, ma è il venir meno della fede, e la fede è una questione d’amore se si tratta di credere in Qualcuno e non semplicemente di credere qualcosa. La scarsa frequenza alla Messa o il poco impegno nel praticare i valori cristiani nella vita è la conseguenza di un torpore, di una distrazione, di un indifferentismo che nascono sul terreno dello scarso amore per Gesù. Ce lo dice il Vangelo di oggi con la parabola dei due figli chiamati dal padre a lavorare nella vigna. Dio non è più il padrone buono che esce a tutte le ore per riempire di operai la propria vigna. Ora è il padre buono che domanda ai suoi figli di lavorare nella vigna, che un poco è anche la loro vigna. L’andare a lavorare dei figli non è per un salario, ma è il segno tangibile e concreto dell’amore verso il padre. La vigna, infatti, è il luogo dell’espandersi dell’amore, è il compito della vita che permette alla vita stessa di avere una direzione seria e ragionevole. Senza questo andare nella vigna – al di là delle promesse e delle buone intenzioni – l’amore per il padre resta vuoto, un flatus vocis, una semplice sillaba pronunciata con le labbra, a cui non segue la conferma della vita.
Dice un proverbio molto saggio: «Val pusè n’andà che cent’andem». Proprio così. Il figlio che dice «no», ma poi si pente e va nella vigna è certamente migliore del figlio che ha detto un «sì» a cui non è seguito nessun andare. Ma il figlio per eccellenza è quello che dice un «sì» che diventa azione. È quello di cui ci parla san Paolo, è Gesù Cristo che, per fare la volontà del Padre, accetta addirittura di svuotare se stesso assumendo una condizione di servo. Innamorarsi di Gesù Cristo è l’unica via per diventare figli come lui. Ecco perché «i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» (così dice Gesù ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo), perché hanno ancora la capacità di cambiare un «no» con un «sì» e di radicarlo nella vita. Gesù, il figlio perfetto che non ha mai detto un «no» e che ha vissuto il «sì» perfetto sull’albero della croce, ci appare come il misericordioso, lento all’ira e grande nell’amore, disposto ad accogliere i ripensamenti incarnati nella vita. Sì, perché essere cristiani è questione non di idee proclamate ma di amore incarnato. Incarnarlo comporta sempre un po’ di fatica e anche qualche rischio di incoerenza e di peccato. Ecco perché Dio continua ad amare il figlio che non aveva voglia di andare nella vigna, «ma poi si pentì e vi andò».