Corriere di Como, 26 settembre 2017
La riflessione sui meccanismi con cui la democrazia perpetua se stessa nel tempo è piena di punti interrogativi. L’aumento del numero delle persone che entrano in un processo decisionale comporta una ricchezza di vedute ma anche un supplemento di confusione. Ciascuno esprime la sua valutazione o anche solo si accoda a quella degli altri o la contesta per puro spirito di andare contro l’opinione altrui. Talvolta si avverte il bisogno di istituire un filtro culturale o esperienziale, nel senso di dare un peso diversificato agli interventi a seconda delle provate qualità o competenze di ciascuno.
Ora, un asserto indiscutibile della democrazia è che ciascuno conta uno. Pensiamo alle elezioni: ogni scheda deposta nel segreto dell’urna viene scrutinata come un voto e non importa per nulla chi l’abbia espresso, basta soltanto che sia regolarmente iscritto nelle liste elettorali. La stessa cosa accade nelle aule parlamentari al momento del voto per un provvedimento di legge: si accendono le lucine rosse o verdi, e il computer si limita a contarle. Ogni parlamentare in aula – come ogni cittadino nel seggio – conta uno.
Da un certo punto di vista questo è un bene, perché elimina il rischio che il potere effettivo sia nelle mani di oligarchie determinate con il censo, il danaro o i titoli di studio. Ma il conteggio dei voti non garantisce affatto la bontà delle decisioni prese a maggioranza. Ricordo le coraggiose parole scritte da un santo Papa, Giovanni Paolo II: «Il valore della democrazia sta o cade con i valori che essa incarna e promuove». Non tutti sono d’accordo con questa affermazione, che pone il piano valoriale prima del piano decisionale. C’è chi crede che sia il popolo a decidere che cosa è bene o male e che l’unico modo possibile per saperlo sia semplicemente contare i voti espressi dai cittadini. Chi ne ha uno in più vince.
Naturalmente resta aperta – e forse è irrinunciabile – la via di una adeguata formazione in vista del voto. Ma uno può benissimo esprimersi in forza di un moto istintivo e per nulla riflessivo, e il suo voto vale comunque uno, come quello di chi ci ha messo un grande impegno di studio e documentazione. E questo, a mio parere, è un grave difetto della democrazia. E lo è soprattutto alla luce di un fattore che sta sempre più diventando normale nelle democrazie occidentali: la drastica riduzione della base elettorale, ormai scesa sotto il 50% degli aventi diritto. Si parla di «disaffezione per la politica», in realtà tale dinamica snatura la democrazia stessa, perché diminuisce i voti da contare e offre ai politici il controllo di un elettorato sempre più ristretto.
Penso con orrore ai rischi di una deriva di questo fenomeno, alla luce di quanto successo nei giorni scorsi. Una forza politica, che ambisce chiaramente al governo di un Paese di 60 milioni di abitanti, ha designato il suo leader con una consultazione digitale che ha coinvolto 37.442 persone (oltre 140 mila erano quelli che ne avevano diritto) e proponendo di fatto un solo candidato. Il mio punto interrogativo è più che mai aperto.