Il pastore, la porta, le vocazioni

QUARTA DOMENICA DI PASQUA – Anno A

Questo discorso di Gesù che afferma di essere il buon pastore e si paragona alla porta del recinto delle pecore non fu compreso dai discepoli quando egli lo pronunciò («non capirono di che cosa parlava loro»). La Chiesa ce lo ripropone ogni anno nel tempo di Pasqua, perché è fermamente convinta che queste parole possano risuonare così in tutta la loro luce. Ma siccome noi siamo facili a fermarci al venerdì santo ed a piangerci un po’ addosso (i discepoli diretti ad Emmaus, che abbiamo incontrato domenica scorsa, da questo punto di vista ci rappresentano bene!) facciamo fatica a cogliere il valore di questa immagine del buon pastore nella luce piena di un Cristo che è vivo per sempre, dopo essere passato dalla morte.

Ci dice: «Io sono il buon pastore». Non l’imprenditore agricolo che tiene i suoi animali in un moderno allevamento intensivo. No, Gesù si paragona ad un pastore, il cui legame con il suo gregge è profondamente segnato dall’affetto e dalla totale dedizione, anche se non smette un secondo di essere guida autorevole delle sue pecore. Si sente responsabile non di un possedimento ma di una relazione.

Dice ancora Gesù: «Io sono la porta delle pecore». Entra in gioco l’idea della felicità. Tutti la cercano, ma tanti riconoscono di non averla trovata o di esserne in continua e frenetica ricerca. Gesù, da pastore buono, ha la pretesa di essere colui che fa entrare e che fa uscire, la porta appunto, una sorta di regolatore di serenità. Le pecore si fidano del pastore e seguono la sua voce perché la riconoscono, il resto per loro non conta nulla, le altre voci generano sospetto e paura. In fondo, Gesù sembra suggerire che la questione della felicità è legata a filo stretto a quella della fiducia e della fedeltà. La fiducia in un pastore e alla sua voce, la fedeltà ad un recinto la cui porta fa entrare e fa uscire e regala infinite possibilità di pascolo. È un’immagine bellissima quella della porta. Noi vi vediamo una costrizione ad entrare, ma essa dice anche la grande libertà dell’uscire, nella compagnia e nella guida sicura del pastore. Davvero la felicità consiste nel fidarsi della persona giusta e nell’essere fedeli a questa scelta.

Ecco entrare in scena un’altra parola. Tutti gli anni, nella domenica in cui la Chiesa propone l’immagine evangelica di Gesù buon pastore, siamo invitati a pregare per le vocazioni. La parola “vocazione” suscita sempre qualche sospetto, soprattutto tra i più giovani, ed è sentita come una cosa superata da coloro che sono più avanti negli anni. Invece la vocazione racchiude proprio il segreto della perenne felicità, che consiste non in un continuo girovagare nella steppa dei bisogni, ma nella faticosa e quotidiana fedeltà al progetto di Dio su di me. Essere felici significa avere un pastore, e anche avere un recinto ed una porta. Avvertire il legame profondo con Qualcuno che ti ama, ma comprendere che esso si gioca concretamente entro un legame di fiducia e di fedeltà. Senza il recinto e senza la porta del pastore buono non si dà alcuna vera felicità. E questo vale per tutte le vocazioni. Sposarsi è più che volersi bene e vivere sotto lo stesso tetto: è fidarsi dell’altro che Dio ha scelto come recinto e porta del pascolo della mia vita; fidarsi e rimanere fedele. Essere preti è più che aiutare gli altri in spirito di servizio, ma equivale a lasciare tutto ciò che è buono e bello per essere con la dedizione della propria vita segno del pastore buono, della sua voce e della sua guida. E fidarsi e rimanere fedeli, nonostante le difficoltà e i dubbi.

Qui potremmo aggiungere un’ultima riflessione, che ci fa volgere lo guardo al sacramento del Buon Pastore, la riconciliazione. Lo farò con un piccolo racconto che ci richiama ancora una volta la similitudine evangelica. Un giorno una pecorella trovò un buco nel recinto. «Curiosa, vi passò, pensando di essere finalmente libera. Saltava felice per i campi, i prati, i boschi, senza più limiti o costrizioni… All’improvviso, però, si vide inseguita da un lupo. Corse senza fiato e col cuore in gola, quando, ormai spacciata, si sentì sollevata in braccio dal pastore che con ansia l’aveva cercata e, commosso, l’aveva ritrovata, portata in salvo. E nonostante molti consigliassero di farlo, il pastore non riparò il buco nel recinto».

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