TERZA DOMENICA DI QUARESIMA – Anno C
Due fatti di cronaca e una parabola compongono l’odierna pagina evangelica. Gesù prende spunto dai due fatti: Pilato aveva ordinato il massacro di un gruppo di pellegrini galilei – probabilmente rivoluzionari che lottavano contro il potere romano (zeloti) – mentre stavano compiendo il sacrificio nel Tempio; diciotto persone avevano perso la vita, sepolte sotto le macerie di una torre crollata improvvisamente. Poi racconta la parabola del fico sterile per mettere in guardia da un’errata interpretazione, secondo la quale, siccome Dio è giusto, se costoro sono morti in tal modo, significa che erano peccatori, e la loro tragica morte va letta come una punizione divina. Come a dire: siccome a noi non è capitata la stessa sorte e non abbiamo meritato quella fine, vuol dire che siamo giusti, e Dio, che è giusto, non ci punisce! Gesù non è affatto d’accordo, e lo ripete due volte: «No, io vi dico, ma…». C’è un ma… «Ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». Il tono di Gesù è minaccioso, ma la parabola sembra ispirata alla misericordia.
In Palestina la pianta del fico cresce facilmente anche su terreni sassosi e poco irrigati. Spesso la si trova a sostegno delle viti. Il fico di cui parla la parabola è cresciuto proprio in una vigna. Secondo le prescrizioni contenute nel libro del Levitico, solo al quarto anno si potevano raccogliere i frutti degli alberi. Quindi, questo fico che da tre anni non dà frutto ha ormai sei anni. Il padrone della vigna è stanco di aspettare e dà un ordine perentorio al vignaiolo: «Taglialo». Questi, però, gli domanda di aspettare ancora un anno e si offre di zappare e concimare il terreno, per vedere se il fico porterà frutto. «Se no, lo taglierai!». Sembra di leggere in questa parabola la vicenda stessa di Gesù, vignaiolo mandato nella vigna del Padre. Il suo ministero durato tre anni non ha dato frutti, e Dio è stanco di sostare davanti a questa umanità arida e indifferente che produce solo foglie. Ecco, allora, la supplica di Gesù, che intercede presso il Padre affinché porti ancora pazienza, e si propone altresì come agricoltore che zappa e concima. Noi sappiamo che darà la sua stessa vita per rendere feconda la nostra pianta. Daremo frutti? O solo foglie? Giungerà il momento del taglio inesorabile di una pianta ostinatamente sterile? Sono domande serie, davanti alle quali vale la pena di assumere lo stesso atteggiamento del vignaiolo. A patto di intendere bene in che cosa consiste veramente la pazienza divina (cui, comunque, segue il giudizio).
Eccoci, allora, a comprendere il taglio e il ricamo da compiere sul nostro abito cristiano: un taglio alla fretta e alla superficialità per ricamare con il filo della pazienza. La fretta ci fa dire: «Non c’è più tempo!». La superficialità, suggerisce: «C’è sempre tempo!». La pazienza, invece, rappresenta un modo diverso di coniugare il tempo: è un «prendere tempo» che non è mai, però, «perdere tempo». Il tempo in più che viene elargito dalla pazienza di Dio va onorato con la fatica e l’impegno. Questa è la logica cristiana: la grazia del tempo concessa da Dio va ricambiata con il tempo di una libertà operosa. Come a dire che sulla pazienza di Dio – che è il modo concreto in cui egli esercita il suo amore e la sua volontà di salvezza – possiamo contare, ma che non possiamo né programmarla né approfittarcene. Purtroppo sia la fretta che la superficialità sono atteggiamenti comuni, che riflettono proprio una scarsa propensione alla pazienza. Chi ha qualche conoscenza della lingua latina, sa che la parola «pazienza» ha la sua radice nel verbo patior, che significa «soffrire». È un verbo né attivo né passivo ma deponente, in cui, cioè, la forma è passiva ma il significato è attivo. La sofferenza – ed in particolare quella particolare sofferenza che è la pazienza – è proprio così: la si patisce, ma regala un significato attivo alla vita. Specialmente utile è questa virtù della pazienza in campo educativo: troppo spesso l’educazione è segnata dalla fretta e dalla superficialità degli educatori, e troppo spesso chi cresce vorrebbe farlo in fretta e superficialmente. Invece, serve tanta pazienza. Attese e bisogni di chi educa e di chi è educato devono entrare nello spazio della pazienza, che, come dice un proverbio, è «il coraggio di tutti i giorni».