SESTA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno B
C’è qualcosa di peggio che essere malati? Sì, essere emarginati proprio perché malati. La lebbra – soprattutto al tempo di Gesù, ma è un morbo che, purtroppo, esiste ancora – era una malattia, che segnava la vita di chi veniva colpito: la norma del libro del Levitico (che abbiamo ascoltato nella prima lettura) afferma chiaramente che i lebbrosi devono abitare fuori dalla città. Gesù, nell’episodio che ci è stato narrato oggi dalla pagina evangelica, non guarisce solo la lebbra, ma risana anche la piaga dell’emarginazione: guarendo quell’uomo, lo reintegra nella società.
Se possiamo comprendere – anche se assolutamente non possiamo giustificare – il dettato della legge in vigore al tempo di Gesù, perché le conoscenze mediche della lebbra e la possibilità, quindi, di curarla erano praticamente nulle, non riusciamo a capire le risposte che la nostra società iper-scientifica e super-medicalizzata dà o vorrebbe dare a quelle sofferenze che sono oggi considerate non guaribili o terminali. Non mi stancherò mai di ricordare la differenza essenziale che esiste tra «inguaribile» e «incurabile», anche se spesso nel linguaggio comune le due parole vengono usate come sinonimi: esistono malattie inguaribili (e presumibilmente ce ne saranno sempre, nonostante i lodevoli sforzi della medicina), ma non esistono malattie incurabili (e non sono mai esistite, perché la «cura» è un atteggiamento tipicamente umano, è il modo umano di preoccuparsi l’uno dell’altro). Ecco perché anche la malattia più grave e debilitante, anche quella attualmente inguaribile, anche nel suo stadio terminale, è comunque degna della cura umana. Il malato deve essere sempre avvicinato e curato. Mai si deve giungere alla sua emarginazione, perché in quel modo gli si rende inaccettabile la sofferenza.
Lasciatemi aggiungere che c’è oggi una forma di emarginazione definitiva del malato terminale, che si chiama eutanasia. Non è una legge dello Stato in Italia, ma potrebbe essere questione di tempo, perché una certa propaganda che fa leva sui cosiddetti «casi pietosi» si fa strada, anche fra i cattolici. Si dice: «Ormai è spacciato, soffre inutilmente, aiutiamolo… a morire». Forse, nella scelta dell’eutanasia si nasconde, più che la volontà di non far soffrire il malato, l’egoismo di chi, sano, non vuole egli soffrire nel vedere l’altro soffrire. Sicuramente l’eutanasia è una fuga, è emarginazione senza ritorno.
Il contrario di quello che fa Gesù. Nonostante ci fossero precise norme che prescrivevano di non entrare in contatto con i lebbrosi, il comportamento di Gesù verso il lebbroso che «lo supplicava in ginocchio» è così descritto dall’evangelista: «Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato!”». I gesti compiuti da Gesù sono significativi:
- «ne ebbe compassione»: è un gesto interiore, il più importante. Siamo tentati di abituarci in fretta alla sofferenza degli altri (non così alla nostra, e ci lamentiamo che gli altri si abituino alla nostra sofferenza!). Invece… «ne ebbe compassione»: Gesù non si abitua alla sofferenza, la compassione lo mette in movimento. Chi soffre comincia a star meglio già nel momento in cui percepisce che c’è uno che lo accoglie, che lo fa sentire vivo (Madre Teresa ci ha insegnato che un sorriso ad un morente ha la forza di ridonargli la dignità di vivente amato da Dio sino all’ultimo respiro).
- «tese la mano»: star vicino a chi soffre non può essere un gesto astratto fatto soltanto di parole di circostanza. L’altro che soffre non è uno dei tanti anonimi casi del «si soffre» generico dell’umanità. Non esistono malati in serie, malati in corsia (purtroppo negli ospedali, invece, spesso è così: sono numeri di letto che si riempiono), esiste questa persona malata, e tu stendi la tua mano verso quella precisa persona, intervieni in quella specifica situazione.
- «lo toccò»: è il gesto di estrema concretezza, che conferma la volontà di entrare in contatto con l’altro che soffre. Se è vero che la malattia vera è l’emarginazione, la vera cura è la condivisione. Condividere è molto più che assistere. Posso assistere uno che avverto ancora come estraneo. Condivido quando mi sento coinvolto in prima persona.
In questo momento, dopo che ho divorato il suo scritto, mi viene in mente San Camillo De Lellis che aveva una certa predilezione per i malati, tutti i malati anche quelli nello spirito. Lei non sa Don Agostino quante situazioni di sofferenza mi capita di condividere e nella mia istintività, se si può dire così, mi sento di chiedere aiuto a questo Santo perchè intervenga nella vita di queste persone per far loro superare dei momenti difficili che stanno passando, un momento di buio, di disperazione. Io posso assistere con delicatezza una persona del tipo che Lei ha descritto, ma Le assicuro che un Santo come San Camillo che è più vicino a Dio, non immagina quanto può fare. Non aspettiamo a chiedere a Dio di avere un’anima infiammata di carità per tutti, per sentire nel nostro cuore la compassione, l’amore attento da riversare su chi ha bisogno di noi. Grazie.