C’è ancora la vigna nel vangelo di questa domenica. Stavolta, però, è la vigna in cui siamo mandati a lavorare dal padre. È la nostra vigna. E noi siamo figli. Nella parabola ascoltata domenica scorsa c’era una sola possibilità: il padrone usciva in piazza a tutte le ore, chiamava i disoccupati, e, raggiunti dalla sua richiesta, si andava a lavorare. Il figlio crede di avere una possibilità in più, visto che la vigna è sua, è quella di suo padre: può obbedire e può disobbedire. Anzi, può dire di sì e poi non andare, e può dire di no e poi pentirsi e andare. Fortuna e rischi dell’essere figli: si può disobbedire, solo con le parole o, quel che è più grave, con i fatti. Che cosa vuole insegnarci, allora, questa pagina evangelica? A me insegna soprattutto una cosa: le parole che diciamo hanno valore se ad esse segue l’obbedienza, tanto è vero che possono esserci parole di disobbedienza – il «non ne ho voglia» detto dal primo figlio – che vengono presto dimenticate dal padre, se poi nella vigna egli, quel figlio, lo trova a lavorare. Immagino che questa esperienza sia comune nelle nostre case: d’istinto si dicono tanti no, che poi si addolciscono nella vera obbedienza, che è quella del fare e non certo quella del chiacchierare… Che un figlio ha obbedito, il padre lo capisce quando, andando nella vigna, se lo trova lì, magari anche contento – perché la gioia aiuta sicuramente a lavorare meglio – magari anche pentito, se poco prima aveva stampato sulla bocca quel «non ne ho voglia» che nasce sul terreno sempre fertile dei nostri «mi piace» e «non mi piace»… Ciò che conta per un figlio è compiere la volontà del padre, con l’efficacia della vita e non con l’annuncio delle parole, e perciò Dio ci ha messo davanti agli occhi l’esempio del suo figlio, Gesù, il quale – ci dice san Paolo nella stupenda pagina della lettera ai Filippesi che abbiamo ascoltato come seconda lettura – «pur essendo nella condizione di Dio, svuotò se stesso diventando simile agli uomini». Un vecchio proverbio popolare sentenzia così: «Val pusè n’andà che cent’andem». Nella vigna bisogna andarci, cercando tra i filari quell’entusiasmo che la nostra malavoglia ha spento. E ci può aiutare il tenere davanti agli occhi l’immagine di Gesù, figlio obbediente, che ama di dare la sua vita per la vigna del Padre.
Da questo punto di vista le parole che san Paolo scrive ai cristiani di Filippi sono davvero molto belle e possiamo sentirle rivolte anche a noi, come pronunciate da un Padre che vuole che andiamo a lavorare nella sua vigna, imitando l’obbedienza di Gesù: «Rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri». Mi colpisce sempre in questo brano una specie di scaletta che san Paolo sembra voler istituire. Il primo gradino è l’umiltà, che ci aiuta a non innalzare piedistalli su cui porre se stessi con l’immancabile meta del proprio interesse come unico traguardo da raggiungere. Se costruisci questo piedistallo, e quello che sta accanto a te a sua volta costruisce il suo, e un terzo costruisce il suo, e così via per le centinaia di persone che entrano in contatto con la tua vita, ebbene, l’esito inevitabile è la rivalità, il conflitto tra piedistalli in cui c’è soltanto il primo posto del podio e deve essere per forza il tuo… È la logica stramba, oggi molto in voga, del «tutto intorno a me», che genera un clima polemico e perennemente conflittuale. Il primo gradino della scaletta di san Paolo è, invece, l’umiltà di chi considera gli altri superiori a se stesso e cerca anche l’interesse degli altri e non solo il proprio. Il secondo gradino è l’unanimità, la concordia, il comune sentire. Ma, capite, l’unanimità non è un magico clima che cade dal cielo, una sorta di combinazione astrale che si genera per una felice concatenazione dei destini personali. No, la concordia è una condizione, che si costruisce solo con la fatica di mettere il piede decisamente sul primo gradino, che è l’umiltà. Solo accettando di partecipare, magari con sacrificio, ad un medesimo sentire, si arriva, per un dono inaspettato, al terzo gradino della scaletta, che è la gioia piena. La gioia, l’entusiasmo, diventano pieni in una comunità, solo se sono il frutto della carità.