Corriere di Como, 11 maggio 2021
In questi mesi di pandemia sento spesso ripetere appelli alla scienza. Per lo più essi intendono sollecitare un semplice e decisivo affidarsi alla ricerca scientifica nel suo sforzo di dipanare i misteri del nuovo coronavirus che ha messo in ginocchio il mondo intero. Ma c’è anche chi ne ha fatto una questione di principio e calca i palcoscenici mediatici nella veste di paladino della scienza, assurta quasi a nuova divinità sull’altare della storia.
Devo ammettere che questa modalità ideologica di appellarsi alla scienza (quasi fosse una religione laica) più che darmi fastidio mi fa sorridere. La scienza, nella sua tensione all’infinito di sondare la natura e di scoprirne le leggi, è un approccio irrinunciabile alla realtà. Avere oggi uno sguardo a-scientifico – che crede, cioè, di poter fare a meno della scienza – è una chimera pericolosa, che nasconde una radicale disumanità. Eppure, invocare la scienza come un dio, è una via altrettanto disumana e che soprattutto non funziona, proprio ad una verifica di tipo scientifico.
Farsi domande e cercare di dare risposte è l’essenza costitutiva dell’uomo, il vero discrimine dell’intelligenza umana rispetto all’intelligenza animale. Farsi domande su tutto, anche su se stesso, è una prerogativa del vivere umano, che mi distingue nettamente e profondamente dal mio gatto e dal mio cane. Ebbene, vi sono domande che iniziano con «come» e domande che iniziano con «perché». Rivolgere alla scienza queste ultime domande (che sono anche domande ultime) è metodologicamente sbagliato, mentre le prime domande (che sono anche domande prime) trovano proprio nelle scienze la possibilità concreta di sempre progressive risposte.
Un autentico approccio umano alla realtà, dunque, ha come presupposto quello di rivolgere le domande giuste al soggetto giusto. Dogmatismi di tipo filosofico-religioso o di tipo scientifico sono altrettanto ridicoli. E la pandemia in cui siamo stati gettati è lì a dimostrarlo ulteriormente. Le innumerevoli domande che ci facciamo su come si è sviluppato il virus, su come si diffonde il contagio, su come lo si previene e lo si affronta o su come se ne cura la malattia sono domande da rivolgere alle diverse branchie della scienza. Le risposte che ce ne vengono sono sicure e definitive? No, sono in itinere e sempre soggette a nuove scoperte, ma sono importanti e in certo modo decisive per il nostro oggi. Il fatto che siano falsificabili non ci esime dall’accoglierle con grande rispetto e con sufficiente affidabilità.
Ad esempio, un secolo fa in occasione della pandemia di “spagnola”, queste risposte della scienza non c’erano ancora e l’umanità ha pagato un tributo di vite umane davvero tragico (la cifra ufficiale dei morti italiani – quasi certamente sottostimata e falsata dalle preoccupazioni di propaganda bellica – fu di 375 mila). Ancora oggi ci sono solo ipotesi su come nel gennaio 1918 nacque l’epidemia ed è un mistero come improvvisamente scomparve nel gennaio 1919, senza adeguate cure e senza vaccinazioni.
Alle domande che iniziano con «perché» la scienza non sa e non può rispondere. Esse sono spesso fastidiose e si cerca di espungerle, ma sono ineliminabili. C’è chi riesce a rispondere, e sono risposte sicure e definitive. Ma, anche così, quelle domande continuano a restare sullo sfondo del vivere umano.
Alle domande che iniziano con «perché» la scienza non sa e non può rispondere. Fiorenzo Facchini, antropologo di fama internazionale e sincero uomo di scienza, ripete spesso che alla scienza si può chiedere solo “come”. La modalità ideologica di appellarsi alla scienza come a una religione laica, trasmessa quotidianamente dai media, a me inizia a dare fastidio…