Corriere di Como, 30 giugno 2020
Quando un virus uccide sparando nel mucchio, è in azione il mistero dell’invisibile sconosciuto che toglie sicurezza alla vita. Quando ad uccidere i propri figli è un padre – che poi si toglie egli stesso la vita – allora siamo nella nebbia del mistero del visibile conosciuto, di cui però è quasi impossibile prevedere la lucida follia. Se la scienza erode giorno dopo giorno il terreno del virus e, si spera, riesca infine a trasferirlo nell’oasi del conosciuto, non così è dell’altro atroce mistero, che nessuna scienza riuscirà mai a svelare completamente sino a renderlo permeabile ad una logica ragionevole. E questo perché siamo nel terreno dell’umano, e non del puramente biologico, siamo nel regno della libertà, che non sempre è guidata dal lume della ragione o da altre luci che possano indirizzarne il cammino.
Che sia follia uccidere i propri due figli e poi gettarsi da un ponte, sarebbe d’accordo anche l’autore del tragico gesto, solo che avesse dialogato con qualcuno di cui veramente si fidava e si fosse lasciato aiutare. Invece no, tutto si è consumato in un oscuro monologo, nella prigione di quella solitudine che questo padre e marito temeva. E che ha finito per convincerlo, nel chiuso della sua (in)coscienza, a mettere in atto il suo assurdo piano di morte. Dicono che fosse un tipo metodico e preciso: ecco, una volta che i suoi pensieri, ad uno scambio decisivo, si sono instradati sul binario morto, ha continuato a seguirlo sino all’impatto fatale. Tanto che a farci paura è quasi più la lucidità che la follia.
Sembra che alla moglie abbia scritto un messaggio: «Resterai da sola». È così, purtroppo. Ma possibile che Mario, non abbia pensato che, per infliggere questa punizione alla moglie Daniela, avrebbe dovuto spegnere la vita degli amati figli Elena e Diego e poi sopprimere la propria? E, se ci ha pensato, come e dove ha trovato il coraggio di farlo, portando a compimento il progetto? Sono domande a cui magari qualche psicologo o psichiatra potrebbe dare delle risposte. Ma non avranno mai quella conferma che potrebbe venire solo da un uomo vivo, capace di ravvedimento o almeno di pentimento. E nel tragitto in macchina tra Margno (luogo dell’omicidio) e Cremeno (luogo del suicidio), forse Mario, in un barlume di luce, ha realizzato quale follia avesse appena compiuta, ma questo non gli ha impedito di portarla alle sue estreme conseguenze, magari proprio per evitare di vivere per il resto dei suoi giorni nelle fiamme del rimorso.
E in ben altre fiamme, quelle dell’inferno, decine di utenti di Facebook, Mario ce lo hanno mandato scrivendogli sul suo profilo messaggi, senza “forse” e senza “ma”. Questa di scrivere sui social messaggi ad un morto, pieni di insulti e maledizioni, è una pratica agghiacciante dell’era digitale. Si direbbe che alla lucidità della follia corrisponde la follia dell’insensatezza. E così, mentre quel profilo, come per inerzia, continua a sprigionare amore da ogni fotografia che vi è postata, sembra che l’abisso di male compiuto abbia prodotto solo risentimento e odio. Parole che, come molte sulla Rete, sono dettate solo dall’impulsività di una emozione. Parole che non aumentano la tragicità del fatto, semmai lo banalizzano.
Invece, più è grande e inspiegabile l’abisso del male, più le nostre parole devono evitare il vocabolario del giudizio. Essere poche e nascere dal silenzio.
Di fronte all’abisso del male, generato da lucidità e non da follia, vi è solo il silenzio e per noi credenti il Cristo…Tino