Colpo di testa 146 / La parabola delle piazze dove manca la libertà

Corriere di Como, 14 gennaio 2020

In Iran è andata in onda la parabola delle piazze. Uno spettacolo che si ripete spesso, soprattutto ove manca la libertà. Dapprima c’è la piazza della commozione popolare, che rappresenta un capitolo dell’epica nazionale. Di solito è il regime ad avere in mano il telecomando del consenso, ma c’è un tasto che non è necessario pigiare per vedere comparire lo spettacolo della folla osannante e piangente, ed è il tasto dell’emotività. L’uccisione del generale Soleimani ha innescato un riflesso condizionato, un rigurgito di patriottismo che ha sospinto migliaia di persone in piazza attorno ad un simbolo. Una sorta di totem per quel movimento di popolo, a suo modo religioso, che un regime teocratico come quello iraniano sa suscitare e guidare.

Del resto, l’emotività è istintivamente nelle mani del potere. Tutte le religioni – in particolare quella islamica della famiglia sciita – sono sensibili all’alone di sacralità che si crea attorno alla figura del martire, capace di universalizzare il popolo che per sua natura è magmatico, di unificare bisogni tra loro anche diversi e soprattutto di far dimenticare dentro una ubriacatura collettiva le ferite che proprio il sistema di potere ha inferto ai suoi cittadini. Voglio dire che in piazza per i funerali del generale Soleimani c’erano, mischiati in una inedita armata Brancaleone, nostalgici e sognatori, entusiasti del regime insieme alla massa dei rassegnati a dover sperare in qualcosa e in qualcuno. Anche le lacrime mostrate dalla televisione fanno parte di una scenografia vecchia quanto il mondo.

Ma la parabola delle piazze conosce un’altra fase. Il clima di paura per una ipotizzata ritorsione a seguito dell’attacco missilistico alle basi americane in Iraq ha portato all’errore umano: un missile terra-aria della contraerea iraniana ha colpito e abbattuto un aereo civile ucraino appena decollato dall’aeroporto Imam Khomeini di Teheran, scambiandolo per un missile cruise. Bilancio: 176 morti, in grande maggioranza iraniani, anche se un terzo con passaporto canadese. Dopo aver sostenuto la tesi del complotto dell’intelligence americana, finalmente è arrivato il riconoscimento della responsabilità iraniana nell’abbattimento dell’aereo.

Ed ecco prendere vita un’altra piazza, l’unica vera piazza che abbia una sua dignità in un regime illiberale come quello iraniano, la piazza della protesta. Sono gli studenti a riempirla, come erano studenti iraniani di ritorno in Canada alcune delle vittime dell’aereo abbattuto. Pieni di coraggio, gridano che il nemico dell’Iran sta all’interno e non all’esterno, che i veri colpevoli sono proprio i «guardiani della rivoluzione» e che Khamenei è un assassino e deve dimettersi. Parole forti, senza lacrime, sono quelle di questa piazza, e c’è da giurare che questi giovani non fossero mischiati alla folla, nell’altra piazza, quella della commozione.

Nel novembre scorso la repressione della protesta era stata implacabile e ci fu un massacro di civili (almeno 300 morti). Ora, dopo la tragedia del Boeing abbattuto, il regime iraniano sembra più in difficoltà anche perché è sotto gli occhi della Rete. Intanto la campionessa iraniana tanto esaltata dal regime, la medaglia olimpica nel taekwondo, Kimia Alizadeh, annuncia di essere fuggita in Europa. Dove c’è molta libertà. Ma forse poco coraggio.

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