Corriere di Como, 7 gennaio 2020
La tragedia che ha colpito la valle Aurina, con la morte di sette giovani tedeschi investiti e uccisi da un ventisettenne della Val Pusteria, è solo l’ennesimo episodio di violenza del sabato sera. Certo il bilancio dell’intemperanza di uno solo è stato davvero tragico e ha innescato le solite parole, che invocano da una parte una esemplare punizione e dall’altra la prevenzione e i controlli. Ma sono parole al vento se non si accompagnano ad un serio coinvolgimento della responsabilità personale e ad una decisa regolamentazione delle libertà individuali. La nostra società invece poggia su un teorema assai strano, che vorrebbe garantire la libertà di ciascuno, vincolandola soltanto all’individuo e correggendola semmai con qualche precauzione.
Veniamo al caso concreto. Il giovane che ha provocato la strage di Lutago non avrebbe dovuto guidare, perché il suo tasso alcolemico era superiore di quattro volte rispetto al consentito. Già, e chi glielo impediva? Inoltre, il giovane ha dichiarato che non si era accorto di essere ubriaco, tanto è vero che si stava dirigendo verso un altro locale. Già, e chi avrebbe potuto impedirglielo? Su queste domande inevase cade ogni seria possibilità di correzione di una libertà malata ma intoccabile. Certo, il giovane avrebbe potuto incappare in qualche controllo stradale che, stabilita la sua inabilità a guidare, gli avrebbe impedito di finire con la sua macchina addosso al gruppo di turisti e di seminare morte. Ma come è possibile pensare in tal modo di aver risolto il problema? Quanti poliziotti servirebbero sulle strade del sabato notte per scovare gli intemperanti e impedire loro di trasformarsi in potenziali assassini?
E allora facciamola la domanda vera, quella che individua la radice del problema ad un livello più profondo: ma per divertirsi è davvero necessario ubriacarsi ed è intelligente permettere che sia così facile ottenere questo risultato? E qui, su questa domanda, viene a galla il gioco delle ipocrisie, perché ciascuno porta le sue attenuanti prima ancora di riconoscere le sue colpe. E, comunque si risponda, c’è la sensazione che resti sullo sfondo l’intoccabilità del sacrosanto diritto allo sballo. Ed è un liberticida chi lo mette in dubbio. Come se l’abitudine ad ubriacarsi, soprattutto se si è giovanissimi, non sia già un male, anche quando un ubriaco non diventa un omicida della strada.
La cultura dello sballo è sbagliata in se stessa, e una società civile che si rispetti dovrebbe lavorare per scardinarla indipendentemente dai danni collaterali che essa può provocare. Invece si continua a predicare una morale ridicola, secondo cui uno può anche rovinarsi la sua vita, basta che in questo processo di autodistruzione non faccia del male ad un altro, innocente e inconsapevole. Sento spesso fare un ragionamento simile da qualche giovane, presentato come campione della responsabilità: «Facciamo in modo che uno del gruppo non beva, così al ritorno guida lui e porta a casa gli ubriachi». Come tattica per evitare le stragi della notte può anche essere utile. Ma mi sembra il classico calcolo al ribasso. Lasciatemi dire che con questo ragionamento non si va lontano sulla via del vero bene, soprattutto delle giovani generazioni.