Corriere di Como, 3 dicembre 2019
Fare il presepe per Natale. Ogni anno spero che un gesto così bello non diventi occasione per qualche polemica da parte di chi crede ancora che la libertà religiosa si difenda togliendo un segno. Il presepe è certamente un segno cristiano, e domenica papa Francesco ne ha difeso il valore con una lettera da Greccio, la località in cui nel Natale del 1223 fu realizzato il primo presepe vivente voluto da san Francesco d’Assisi. Il presepe è come la fotografia di una notizia, e nel nostro mondo della comunicazione non si può certo negare spazio a una notizia, soprattutto se è tradotta in una immagine plastica che la sa ritrarre in mille modi. Ora, la notizia è che Dio si è fatto uomo: per accoglierla serve il guizzo della fede, che del resto è uno strumento di conoscenza che noi umani utilizziamo quotidianamente ben più spesso di quanto ne siamo consapevoli. Ma per accogliere il presepe, che è la traduzione iconografica di questa notizia, non serve la fede e basta la semplice luce degli occhi: essi sanno vedere la nascita di un bambino, attorno al quale c’è tutto un mondo di personaggi inseriti dentro una scenografia.
Si direbbe che fare il presepe equivale a coniugare un messaggio che può addirittura ampliare – si spera senza snaturarlo – il contenuto originario, mettendo in movimento «un esercizio di fantasia creativa». Quindi, se la notizia e il fatto che stanno all’origine del presepe sono pienamente significanti solo all’interno di una esperienza cristiana, bisogna riconoscere che la plasticità del presepe ne fa uno strumento universale e simbolico fruibile non solo dai credenti.
Ogni presepe contestualizza il fatto della Natività oppure lo attualizza, dando vita a «piccoli capolavori di bellezza». Ad esempio, nel dibattito spesso inconcludente sulla crescita/decrescita felice/infelice che nelle settimane del consumismo prenatalizio riprende vigore, il presepe propone una scena in cui al centro c’è una nascita e tutto intorno un andirivieni di personaggi che sono motivati unicamente da quella nascita. La felicità e la vitalità di una società si costruiscono sulla sua fiducia nella natalità: questo messaggio del presepe va controcorrente rispetto al dato statistico della denatalità che ci affligge. Si può parlare ancora di società felice se c’è sfiducia nella vita?
Si potrebbe tentare un’altra attualizzazione. Un presepe fedele al contesto sociale di oggi dovrebbe trovare il coraggio di mettere in primo piano il brulichio vorticoso delle vie illuminate del centro delle nostre città, e lasciare in periferia e al buio l’umile scena della natività. Ma questa è solo l’apparenza. Quella scena marginale in verità è l’unica veramente generativa. Perché la vita corre in modo significativo – sia in positivo che in negativo, purtroppo – dentro quelle case che sono rimaste al buio e non nei palazzi illuminati solo all’esterno!
Naturalmente, al di là di queste possibili attualizzazioni, fare il presepe resta un gesto di fantasia e bellezza anche nella ripetitività del togliere ogni anno le stesse statuine dallo scatolone e rimetterle sulla scena nel medesimo posto in cui le metteva già il nonno. In fondo, anche questa fedeltà è indice della ricchezza e della vitalità di una tradizione come quella del presepe.