Corriere di Como, 5 febbraio 2019
Quando pronunciamo alcune parole, spesso diamo per scontato che sia reale ciò che da esse è significato. Una di queste parole è «adulti», a cui ne sono come concatenate altre due: «educatori» e «genitori». Non basta aver compiuto un certo numero di anni (trenta? quaranta?) per essere adulti. Non basta avere un ruolo direttivo o formativo (che ne so, allenatore o insegnante) per essere educatori. Non basta avere dei figli per essere genitori. Non sono i nomi che danno la sicurezza che dietro ad essi ci sia qualcosa. I nomi sono come scatole che possono anche essere vuote, se non contengono quel bagaglio di virtù che si acquisiscono, non anagraficamente o istituzionalmente, ma in forza di scelte di vita ben precise e quasi sempre faticose.
Ci pensavo alla luce dei fatti di cui si sta parlando negli ultimi giorni in merito alla baby gang sgominata a Como: diciassette giovanissimi, di età compresa tra i 14 e i 18 anni, accusati di ben 38 reati (furti, rapine, ricettazioni, lesioni, danneggiamenti, violenze gratuite) compiuti negli ultimi cinque mesi. Sembra che qualche genitore abbia minimizzato, definendole «ragazzate», e dimostrando così di non essere veramente né adulto, né tantomeno educatore e genitore (se non col semplice suono delle parole).
Tutte le volte che si parla di baby gang, giustamente si stigmatizza l’assenza degli adulti e il fatto che non sia entrata in gioco la loro responsabilità educativa e genitoriale. Bisognerebbe essere più drastici nell’analisi: spesso non vi sono adulti sul campo e quella responsabilità non avrebbe nemmeno potuta entrare in gioco, non per una cattiva volontà, ma semplicemente perché non esiste proprio! Se gli adulti, che dovrebbero svolgere il ruolo di genitori ed educatori, sono in realtà essi stessi poco più che adolescenti cresciuti, sono loro il vero problema sociale. E lo sono anche quando i loro figli non delinquono, ma semplicemente languono, in attesa di diventare anch’essi adolescenti cresciuti.
Da questo punto di vista c’è il rischio che i quindicenni di oggi siano figli di una generazione che ha sperimentato lo stesso disagio (anche se allora non esplodeva in fenomeni come le baby gang). Bisogna assolutamente interrompere questa trama, che si tramanda di padre in figlio. Si deve, quindi, stroncare severamente il fenomeno delinquenziale delle baby gang, senza farsi convincere da buonismi inutili e deleteri. Ma è necessario fare qualcosa perché questi baby rapinatori diventino davvero adulti, se non vogliamo che i loro figli un domani siano ancora più vuoti ed efferati.
Certo, l’educazione non è geometria, ma arte. È come una basilica medievale in cui le precise misure del gotico si lasciano modellare dalla creatività libera e imprevedibile dell’artista, che sa valutare la materia e gli spazi a sua disposizione. Ecco perché è necessario parlarsi e ascoltarsi e, naturalmente, avere qualcosa da dire e qualcosa da imparare. Io credo che oggi il vero problema educativo stia in questa atrofia dei tempi di un vero dialogo tra giovani e adulti, ma soprattutto nella carenza, non tanto di un’etica, ma – ancora più a monte – di una essenziale grammatica del bene e del male.