Corriere di Como, 11 dicembre 2018
Chi è il dissidente? Per rispondere a questa domanda, bisogna uscire dalla logica dell’ideologia, data per morta ma in realtà viva e vegeta nel contesto, fortemente incline alla contrapposizione, dei nostri tempi. Il dissidente non è un partigiano, uno che sta da una parte contro l’altra parte. E non è nemmeno uno che contesta per il gusto di contestare, salvo poi accomodarsi in un posto sicuro. Essere dissenzienti è oneroso e impegnativo. Perché il dissidente possiede un’unica bussola, sempre la stessa, ed essa continua a segnare il nord, anche quando cambia il mare di navigazione.
Dissidente di razza pura fu Aleksandr Solženicyn (di cui proprio oggi si ricorda il centenario della nascita, 11 dicembre 1918). Nonostante egli sia morto appena dieci anni fa, la sua forza d’urto è già stata dimenticata, e non tanto perché la geopolitica nel frattempo è cambiata, quanto perché la bussola che il dissidente sovietico teneva saldamente in mano è malvista dai padroni del consenso e del potere di ogni epoca, a maggior ragione della nostra, che si vanta d’essere andata oltre le ideologie nel regno della pura libertà.
Solženicyn dissentì dal regime comunista che si era impadronito dell’amata terra russa, e pagò il suo coraggio con la detenzione nei lager sovietici dell’Arcipelago Gulag. Ma, una volta esiliato in Occidente, egli vestì i panni di acuto dissidente di quella strana civiltà che, in nome della libertà, toglieva all’uomo la sua dignità più profonda.
Bisogna trovare il coraggio di «vivere senza menzogna» – è il titolo dell’appello che nel 1974 gli costò l’espulsione dall’Unione Sovietica – perché «una sola parola di verità pesa più che l’universo». Questo fu il programma di vita di Solženicyn, a Mosca come a New York. Da questo punto di vista, mi pare di grande attualità – anzi, è un grido ancora per tanti versi inascoltato – il famoso discorso che Solženicyn tenne all’università di Harvard, davanti a 20mila persone, l’8 giugno 1978.
Paventando l’eventualità di «una catastrofe bellica universale», segnalava però come «già in corso la catastrofe della coscienza umanistica areligiosa». Disse: «Abbiamo riposto troppe speranze nelle trasformazioni politico sociali e il risultato è che ci viene tolto ciò che abbiamo di più prezioso: la nostra vita interiore. All’est è il bazar del partito a calpestarla, all’ovest la fiera del commercio. Quello che fa paura non è neanche il fatto della spaccatura del mondo, quanto che i frantumi più importanti siano colpiti da un’analoga malattia». Dopo quarant’anni, si può dire che c’è un’unica fiera del commercio, a cui si è adeguato anche il bazar del partito. Il potere politico-economico della Cina ne è un preoccupante esempio: a Pechino – come ha ben evidenziato Ernesto Galli della Loggia sulle pagine del Corriere della Sera – c’è la presenza contemporanea di un’economia capitalistica e di un sistema politico dittatoriale, che la governa e la promuove, pur non riconoscendo alcun diritto di libertà.
Direbbe oggi Solženicyn, aggiornando le parole di quel discorso, ma tenendo fermo l’obiettivo: non c’è la libertà, ma ve ne sono già i guasti, perché tutto è orizzontale, e manca la freccia che dalla profondità conduce all’altezza.