TRENTUNESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno A
Sembra di capire che Gesù ce l’ha con gli scribi e i farisei. In verità, Gesù non ce l’ha con nessuno in particolare. Semmai, intende mettere in guardia da un atteggiamento in cui più facilmente possono cadere i farisei, cioè persone che di per sé sono scrupolose nell’osservanza dei comandamenti. Ciò che dice Gesù, quindi, ci riguarda. Egli, infatti, sta prospettando i rischi che possono correre – diremmo noi oggi – quelli che vanno in chiesa tutte le domeniche. Quali sono questi rischi? «Dicono e non fanno». Siamo soliti chiamare incoerenza tale atteggiamento di chi dice e poi non fa. Ma attenti a capire bene. Gesù non ce l’ha con l’incoerenza dovuta alla fragilità umana e che è frutto del peccato. Ciò che Gesù critica ferocemente nei farisei è una incoerenza ancora più profonda, esistenziale e non morale: essi sono dei predicatori tristi, perché dal loro volto non traspare alcuna vera passione né per quanto annunciano né per coloro a cui annunciano. Trasmettono senza trasmettersi, senza mettersi in gioco veramente in un incontro umano prima ancora che religioso o istituzionale.
«Legano fardelli pesanti e difficili e li impongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito». È la diretta conseguenza del «dire e non fare», questa di «far fare» agli altri ciò che essi dicono e non fanno. È il rischio del moralismo. Cioè: l’avere chiaro in testa che la fede deve trovare spazio nella vita, ma poi ridurre la morale ad un fardello da mettere sulle spalle della gente. Le regole – che ci devono essere, altrimenti ciascuno diventa regola a se stesso – perdono il loro legame con la fede e diventano un peso. La vita di fede, allora, appare come una sorta di «lavoro forzato». Se, dicendo la nostra fede, la presentiamo come un peso da portare – e quindi cerchiamo noi per primi quando possiamo di dribblarla – allora siamo come i farisei… che dicono e non fanno e, comunque, fanno portare agli altri quel peso che essi predicano ma non vogliono toccare nemmeno con un dito.
«Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente». È un terzo atteggiamento sbagliato: la vanagloria. I farisei ricercano se stessi, il loro «dire e non fare», il loro «sembrare e non essere» è tutto orientato ad un’affermazione di sé (che è il contrario della vera fede, che è sempre affermazione di Dio!). Ovviamente, Gesù non è contrario ai segni esteriori della fede, ma si scaglia contro il loro stravolgimento. Gesù cita un esempio concreto, parlando di filatteri e di frange. I filatteri erano delle piccole custodie contenenti frammenti di testi biblici; il pio ebreo appendeva queste custodie al braccio sinistro e alla fronte, interpretando letteralmente un brano del Deuteronomio: «Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore…Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi». Anche le frange legate ai quattro angoli del mantello erano frutto di un’interpretazione analoga ad una prescrizione del libro dei Numeri: «Avrete tali frange e, quando le guarderete, vi ricorderete di tutti i comandi del Signore e li eseguirete». Scribi e farisei, lungi dall’usare questi segni nel loro significato simbolico, si pavoneggiavano come se frange e filatteri non avessero lo scopo di ricordare loro l’osservanza della Parola di Dio, ma dovessero mostrare agli altri e ricordare a Dio che essi quella Parola già la osservavano. Gesù non è d’accordo: lo scopo dei segni religiosi è solo quello di edificare il prossimo e di dare gloria a Dio.
Si può convertirsi dal fariseismo? Certo. San Paolo, che era un fariseo osservante, è diventato un fedele cristiano. Basta riascoltare le parole che ci ha proposto la seconda lettura per vedere in Paolo un uomo che sta amorevolmente trasmettendo non un contenuto di fede freddo e distaccato, ma la propria stessa vita così come Cristo l’ha trasformata. Il vero discepolo di Gesù è uno che lascia parlare e vivere il Gesù che abita dentro di lui!