VENTISETTESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno A
«Sarà dato (il regno) a un popolo che ne produca i frutti». Siamo noi quel popolo, ma la vigna – il regno – ha fruttificato? Il commento alla pagina evangelica di oggi potrebbe riassumersi in questa domanda e in un esame di coscienza. La vigna – cui si riferisce Gesù, ma anche il profeta Isaia – è una delle immagini più belle di tutta la Bibbia: è l’immagine del popolo scelto da Dio per trasformare la storia in storia di salvezza; ma è anche l’immagine della Chiesa, il nuovo popolo radunato da Cristo; ed è pure l’immagine del mondo stesso in cui, come su una scena destinata a passare, si svolge questa parentesi terrena, così importante perché è l’unico tempo utile per produrre i frutti. Mentre nella parabola raccontata dal profeta è la vigna che non produce secondo le aspettative del padrone, nella parabola raccontata da Gesù il problema è costituito dai vignaioli: sono essi a non consegnare i frutti agli inviati del padrone. Riflettiamo, tenendo presente sia la parabola ascoltata nella prima lettura sia quella proposta dal vangelo.
È bellissimo accorgersi che la vigna assume i caratteri di una persona amata, tanto da far pensare ad un rapporto sponsale: la vigna non è una proprietà, ma è la sposa del padrone, che non è un padrone, ma lo sposo. Vigna sopra un fertile colle… vangata, sgombrata dai sassi… con viti scelte: per essa non si stila un rapporto di tipo economico, ma si leva un cantico, come, appunto, quello dello sposo per la sposa. Ce ne accorgiamo che Dio è preoccupato di noi in questo modo esagerato? Ci regala infinite occasioni per la nostra salvezza, e aspetta fiducioso il frutto. Ancora. C’è un rapporto assai bello anche tra il padrone ed i vignaioli. Cioè: l’idea che la vigna non sia una cosa da possedere ma persone da amare – già presente nel cantico di Isaia – è ulteriormente rafforzata nella parabola evangelica, in cui il padrone non solo pianta la vigna, non solo la protegge con la siepe, vi mette un torchio e vi costruisce una torre, ma la affida a dei vignaioli prima di andarsene. Il modo di proteggere di Dio è la libertà: la vita è un dono suo, ma affidata in gestione a ciascuno di noi. Il rapporto che si crea tra la vigna e il padrone e tra i vignaioli e il padrone è un rapporto che nega di fatto questo amore e questa fiducia: la vigna produce uva selvatica, i vignaioli vorrebbero trasformare la libertà loro donata in totale autonomia e giungono sino alla ribellione nei confronti del figlio del padrone. Quel figlio – immagine di Gesù Cristo – rappresenta il massimo dell’amore da parte di Dio, eppure viene ucciso, perché è visto come un intralcio sulla via dell’autonomia da Dio. A fronte di un uomo che vorrebbe diventare Dio, c’è un Dio che diventa uomo.
Eccoci di nuovo alla domanda: noi, nuovo popolo fondato da Cristo, vignaioli scelti al posto di coloro da cui invano Dio ha atteso il frutto, vigna in cui egli continua a riversare il suo amore, noi, abbiamo cominciato a consegnare i frutti che Dio s’aspetta? Oppure tergiversiamo e magari, anche noi, abbiamo il nostro piccolo piano per defenestrare Dio e i suoi inviati, per eludere tutti gli inviti e i messaggi che Dio mette sul nostro cammino per richiamarci alle nostre responsabilità?
Verrebbe da dire che la Chiesa nel nostro Occidente ha smarrito la strada, e si è talmente diluita nel mondo, da non essere più in grado di offrire un valido aiuto all’uomo in caduta libera. Verrebbe da pensare che forse Dio sta pensando di lasciar cadere i pilastri della nostra cristianità stanca, per riporre altrove la sua fiducia. Del resto, Gesù stesso invita chiaramente i suoi discepoli a passare oltre, laddove il messaggio non venga accolto: ci sono altri villaggi, altre nazioni, altri continenti, altre persone meglio disposte, magari in attesa di ascoltare la buona novella, mentre qui da noi le novelle che riempiono la vita sono altre. Ma la pazienza del Signore è pari al suo amore e, pur mantenendo ferma la richiesta di un frutto buono, il suo proposito di abbandono della vigna resta come sospeso.
Inoltre l’apostolo Paolo nella Lettera ai Filippesi ci invita a non demordere, ad essere convinti della nostra fede e a non lasciarci intimorire dalle situazioni sfavorevoli: «Fratelli, non angustiatevi per nulla», perché «la pace di Dio supera ogni intelligenza».