VENTITREESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno A
Una delle situazioni più comuni e più difficili da affrontare è proprio quella cui fa riferimento Gesù oggi nel vangelo. Vedo un altro – un vicino, un parente, un amico, una persona della comunità cristiana – sbagliare, sono convinto che il suo errore mette a repentaglio la sua vita e forse anche quella di altri. Che cosa faccio? Giro la testa da un’altra parte e vado per la mia strada, perché è meglio non immischiarsi negli affari degli altri: questa è la soluzione più gettonata nella società individualista in cui viviamo. Ciascuno – dice la mentalità corrente – è padrone della sua vita, e, se vuole sbagliare, è libero di farlo, senza che io vada a mettergli i bastoni tra le ruote. A dire il vero, la soluzione più gettonata è un’altra ancora: non solo si evita accuratamente di parlare con il diretto interessato del suo errore, ma si comincia a parlarne con gli altri. È la pratica tanto comune del pettegolezzo, che genera altro male invece di cercare di porre rimedio a quello esistente. Dobbiamo stare molto attenti ai danni prodotti dal pettegolezzo.
Si racconta che san Filippo Neri diede ad una donna assai pettegola questa penitenza: doveva passare per le vie di Roma spennando una gallina. Quando ella riportò l’animale spennato al Santo, egli le ordinò di tornare sui suoi passi a raccogliere le penne, una ad una. La donna disse che era impossibile, perché il vento aveva disperso ovunque le penne. San Filippo, allora, le fece notare che lo stesso accade ai pettegolezzi: è impossibile passare a raccoglierli e riparare al danno che essi comunque arrecano!
La soluzione proposta da Gesù è diversa sia dal menefreghismo che dal pettegolezzo. Egli insegna la correzione fraterna. Non si tratta affatto di giudicare l’altro, ma di sentirsi corresponsabili con l’altro del suo bene e del bene comune. La proposta di Gesù, ancora una volta, è ispirata ad autentica misericordia: correggere fraternamente è segno d’amore, mentre spettegolare è indice di mancanza di misericordia. La regola è semplice: prima confrontati in segreto con la persona interessata, cerca con amorevolezza ma anche con fermezza di farle capire che sta sbagliando, ascolta pazientemente le sue ragioni e argomenta le tue; se questo primo tentativo non funziona, fatti aiutare da una o due persone fidate che possano riuscire a convincere l’errante e a farlo ritornare sui suoi passi; se tutto si dimostra inutile, allora è necessario far intervenire la comunità. Ovviamente Gesù fa riferimento a situazioni anche di peccato grave che possono danneggiare la comunità. Il male, quando non lo si chiama con il suo nome, rischia di passare inosservato, e chi è più debole – per intelligenza o forza di volontà – può trarre l’errata conclusione che, siccome nessuno interviene, quel comportamento non è sbagliato e può essere imitato. Ecco perché la Chiesa è madre anche quando interviene pubblicamente a dichiarare un particolare atto come chiaramente sbagliato e pericoloso per la comunità.
La correzione fraterna non è, purtroppo, un atteggiamento di moda: correggere è scomodo ed essere corretti fastidioso. Oggi si è disposti a tollerare tutto, per il quieto vivere… e perché ormai il mondo va così. Anche in famiglia, troppi genitori hanno smesso di esercitare la correzione nei confronti dei figli per paura di renderseli ostili. È un gravissimo errore, perché i figli hanno bisogno di essere corretti per crescere.
Sentite cosa scrive una ragazza ad una rivista per giovani: «Io in certi momenti della mia adolescenza ho odiato i miei genitori. Non sopportavo le loro correzioni, i loro richiami, le regole imposte. Mi ricordo di averlo confidato a mia madre. Ella mi disse che un genitore deve farsi “odiare” da una figlia, cioè essere scomodo, esigente, anche intransigente per farla crescere. Come è vera questa risposta. Se ora sono riuscita a possedere un buon equilibrio e ad essere felice, lo devo soprattutto ai miei genitori che per anni mi hanno scocciata, infastidita, spronata ad essere migliore».