VENTUNESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno A
È una pagina sorprendente questa, posta com’è alla ripresa delle attività dopo le vacanze. La regione di Cesarea di Filippo – ove avviene questo dialogo tra Gesù e i suoi discepoli – è ai confini settentrionali di Israele, dove la fede del popolo è obbligata a confrontarsi continuamente con il mondo pagano. È come se Gesù oggi verificasse anche la nostra fede nel momento in cui siamo nuovamente chiamati a vivere la fede in Lui dentro le fatiche e gli impegni della vita quotidiana.
Curiosa domanda quella di Gesù. Non la prima, che è un semplice sondaggio mondano, da cui Gesù esce decisamente bene. Risulta che è una figura importante, un uomo interessante. Per la gente, per la folla anonima. Ma a Gesù importa il «voi» composto da coloro che lo seguono più da vicino, quelli che hanno deciso di uscire dall’anonimato della gente per entrare nel numero dei discepoli. E qui c’è il primo punto interrogativo: noi che siamo qui in chiesa ci sentiamo interpellati come gente o come «voi»? Il nostro cristianesimo è anonimo e occasionale o radicato in una fedeltà quotidiana? Ci sentiamo comunità di discepoli di Gesù a cui possa essere indirizzata una domanda che inizia con «ma voi…», oppure ciascuno di noi è qui a rappresentare individualmente se stesso?
Ovviamente Gesù quel giorno voleva stanare i suoi discepoli da ogni loro dipendenza, consapevole o no, dal «si dice», dalle opinioni e dalle chiacchiere della gente. Il pensare comune si ferma all’esterno, alla superficie della persona (che cosa fa, come si comporta, i prodigi che ha compiuto, le parole che ha detto…), mentre per poter entrare a fondo nell’identità di Gesù è necessario essere suoi intimi, suoi familiari, suoi amici personali. Ma è una domanda, quella di Gesù, al plurale. Non è rivolta al singolo discepolo, perché conoscere Gesù non è intimismo, ma frutto di una relazione comunitaria. Gesù lo si conosce se si è Chiesa, vale a dire se ci si lascia coinvolgere dalle relazioni tra persone che seguono l’unico Signore.
Simone, figlio di Giona, risponde con una profondità che ha dell’incredibile. Simone, il pescatore di Galilea, sembra dotato di una precisione teologica fuori dal comune e riconosce in Gesù il Messia atteso e insieme dichiara che in lui vi è di più di un semplice inviato: è il figlio di Dio. Come avrà mai fatto? Glielo ha rivelato il Padre, non è frutto di intelligenza umana. Ma il Padre ha potuto rivelarglielo perché Simone sta con il Figlio e lo segue. E, come dirà Gesù stesso in un altro dialogo con l’apostolo Filippo, «chi ha visto me ha visto il Padre».
«Tu sei il Cristo», dice Simone. «Tu sei Pietro», dice il Cristo. Simone si trova il nome cambiato da Gesù solo perché in lui ha riconosciuto Dio. Il suo destino acquista una direzione nuova. Potrebbe essere questo il senso della domanda di Gesù, anche di quella rivolta a noi oggi. A che ci serve essere qui? A che pro riconoscere di essere discepoli di un Dio fatto uomo, che continua a camminare tra di noi e che possiamo vedere nel volto delle persone che incontriamo? Serve a conoscere la nostra vera identità. Riconoscendo che Gesù è il Cristo, Simone sa che egli in realtà è… Pietro, la roccia. Entrando nel mistero di Dio, il discepolo si vede rivelato il proprio volto, indicata la propria strada. Dovremmo imparare oggi che la verità su noi stessi la riceviamo in dono solo riconoscendo la verità di Dio.