VENTISEIESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno C
Possibile che l’evangelista Luca si sia dimenticato il nome di quell’uomo ricco, vestito bene e impegnato a divertirsi da mattina a sera? Ci informa che il mendicante si chiamava Lazzaro, ma non ci dice come si chiamava il ricco. Nessuna dimenticanza. Siamo di fronte ad uno dei paradossi della parabola, una traccia per comprenderla. Infatti, il nome è importante, dice tutta la dignità di una persona. Ebbene, quell’uomo è senza nome perché la sua logica di vita è senza dignità, ed è per questo che la sua esistenza terrena è destinata al fallimento eterno, all’inferno. Si badi bene: non perché ricco, mentre Lazzaro è povero, perché altrimenti il Vangelo proporrebbe a sua volta una logica perversa in cui è necessario essere indigenti e coperti di piaghe per guadagnare il paradiso; ma perché quel ricco ha usato male della sua agiatezza (per dirla con le parole di Gesù ascoltate domenica scorsa: non ha usato della sua iniqua ricchezza per procurarsi l’amicizia di Lazzaro), è diventato schiavo dei suoi beni e totalmente insensibile alle necessità del prossimo. A pensarci bene, la situazione descritta dalla parabola è esattamente il contrario di ciò a cui siamo abituati, e cioè: vedere scritto a caratteri cubitali il nome del ricco e non sapere nemmeno il nome del povero. E siamo noi i responsabili di questa operazione, perché è grazie a noi, alle nostre incensazioni e soprattutto alla nostra invidia, che il nome del ricco diventa importante, e lo abbiamo sempre sulla bocca, mentre il nome del povero ci è sconosciuto.
Comprendo che il linguaggio della parabola (“ricco” e “povero”) è un poco fuorviante. La parola “ricco” evoca sempre un altro, uno più ricco di noi, verso cui indirizzare le nostre critiche. Ci viene in aiuto il profeta Amos (prima lettura), il quale, descrivendo la condizione che è propria all’uomo ricco della parabola, usa altre due parole per indicare la categoria dei cosiddetti “ricchi”: «spensierati» e «buontemponi» (ahimé, nella nuova traduzione reso con un più banale «dissoluti»). Chi sono costoro, contro cui Amos lancia i suoi strali?
Gli spensierati sono coloro che non pensano a ciò cui dovrebbero pensare, che chiudono gli occhi pur di non vedere ciò che dovrebbero vedere, che si tappano le orecchie pur di non sentire ciò che dovrebbero sentire; e, quando capita loro di pensare, vedere o sentire, scacciano subito quelli che considerano pensieri tristi, immagine crude, parole forti e vivono da spensierati, appunto, nella ricerca di qualcosa che li stordisca e li diverta. I buontemponi sono coloro che ammazzano il tempo senza mai ricavarne qualcosa di importante e decisivo per la propria vita. Sono incapaci di gioia vera, così come sono incapaci di autentica partecipazione al dolore.
Possiamo dire, senza paura di sbagliare, che il ricco della parabola era uno spensierato buontempone. Ma possiamo dire con altrettanta sicurezza che si può essere spensierati e buontemponi anche senza essere ricchi nel senso materiale della parola. L’agiatezza in cui tutti noi viviamo ci rende potenziali spensierati e buontemponi. Il nostro mondo è pieno di questa categoria di persone, cui proprio noi diamo un nome e un’importanza spropositata: vi sono maestri di spensieratezza che scrivono libri – e noi li leggiamo! – , incidono dischi – e noi li ascoltiamo! – , fanno programmi televisivi – e noi li guardiamo! –
Ogni nostra casa rischia di assomigliare al palazzo del ricco epulone, ove la televisione e il frigorifero portano ciò di cui abbiamo bisogno per sentirci al sicuro.
Il Vangelo ci mette in guardia. E ce lo dice anche san Paolo (seconda lettura): «Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato». Lo sguardo è invitato ad andare oltre, oltre il mio benessere, la mia agiatezza; oltre le cose di questo mondo, le sue apparenti sicurezze; oltre le prospettive pur umanamente giuste di una vita dignitosa sul piano materiale. La fede è uno sguardo oltre. Non uno sguardo che dimentica il «qui ed ora», ma uno sguardo che è capace di alimentare l’orizzonte di una vita e di nutrirlo di Dio, non solo di cose da mangiare, da vedere, da toccare, da consumare. È l’invito a dare una dimensione autenticamente cristiana alla vita terrena.