QUARTA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno C
Come si fa in fretta a passare dalla meraviglia allo sdegno. A Nazaret, la città ove è cresciuto e ha vissuto per tanti anni, Gesù viene accolto con meraviglia per le «parole di grazia che uscivano dalla sua bocca». La meraviglia, però, è già intrisa di quel sospetto, di quella invidia, di quel fastidio che prende sempre corpo quando uno, giudicato normale, – figurarsi poi se è solamente il figlio di un carpentiere! – torna con il suo bagaglio di fascino e di cultura e pronuncia parole che possono sconcertare. La meraviglia sembra già così lontana dallo stupore autentico, che magari non capisce tutto, ma è disposto ad accogliere. E, infatti, quando Gesù dice pane al pane, ecco questa falsa meraviglia tramutarsi in sdegno e addirittura in malevolenza e in tentata violenza. Sì, ha ragione Gesù: «nessun profeta è bene accetto nella sua patria». E Gesù è proprio il profeta di cui il Signore aveva parlato a Geremia, il profeta che non si spaventa anche se tutto il paese è contro di lui. «Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino». Sembra di vederlo questo Gesù, che attraversa lo sdegno, spegne la violenza che lo vorrebbe gettare giù nel precipizio, non per fuggire però, ma per mettersi in cammino. Il suo cammino. Noi conosciamo dove porta quel cammino di Gesù, sul ciglio di un altro monte, a Gerusalemme. Qual è il cammino, la via di Gesù? San Paolo ce la descrive in una delle sue pagine più belle. Ci dice: «vi mostro la via più sublime».
L’intelligenza? L’intraprendenza? La creatività? L’autorità? Tutte risposte che saremmo tentati di dare. La risposta di Paolo – ed è la via stessa sulla quale Gesù s’incamminò quel giorno andandosene da Nazaret – è un’altra. La via più sublime è l’amore. A parole in tanti sarebbero disposti a sottoscrivere, ma Paolo non si limita a pronunciare una parola. Intanto nella sua penna la parola “amore” è scritta non con il termine allora più comune, ma con un’altra parola che noi abbiamo tradotto con “carità”. L’inno di Paolo, in effetti, è un inno all’amore, ma ci accorgiamo subito che funziona solo se esso è un inno alla carità. Parola che noi usiamo con più difficoltà, perché rischia di aver assunto una connotazione religiosa e anche un po’ mistica e spirituale. Invece dobbiamo assumerla nel suo significato più immediato: la carità è la pienezza dell’amore, è il vero amore. Per cui possiamo davvero pronunciare l’inno paolino lasciando ad esso come soggetto la parola “amore” e dire che «l’amore è magnanimo, è benevolo l’amore, non è invidioso l’amore, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta».
Il modo migliore per far tesoro di questo inno all’amore è quello di fermarsi in silenzio a fare un esame di coscienza approfondito. San Paolo, in fondo, vuol proprio aiutare anche noi a purificare il nostro amore, così che sempre più assomigli a questa descrizione della carità. Due sono le correzioni principali che dobbiamo fare al sentire comune circa l’amore. Intanto l’amore non è un sentimento, ma è l’anima dei nostri sentimenti. Non ha senso dire «ti amo» e, dentro, pensare: «finché mi piace, finché mi fa comodo, finché dura, finché c’è serenità, bellezza, salute…». Un amore così è una smentita dell’amore!
Poi, l’amore non è un’azione, ma è l’anima di ogni agire umano. Troppo spesso la carità è ridotta ad un fare, per esempio ad una elemosina. Carità e fare la carità sono la stessa cosa? San Paolo rompe questa equivalenza: «Se anche dessi in cibo tutti i miei beni, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe». Cioè: si può fare la carità senza avere la carità. È bello accostare questa espressione di Paolo ad una di Gesù, il quale disse: «Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca… non perderà la sua ricompensa». Puoi dare tutti i tuoi beni, e non ti serve a niente. Puoi dare anche solo un bicchiere d’acqua e ti basta per entrare nel regno di Dio. Che cosa, dunque, distingue le nostre azioni? È la carità. Non l’apparenza del dare, non l’esteriorità del fare, ma la radice della carità che sta nel segreto del cuore e che solo Dio vede.