È incredibile come nel discorso che Pietro fa nel giorno di Pentecoste vi sia una descrizione di Gesù che è simile alle parole che i due discepoli di Emmaus rivolgono al pellegrino sconosciuto che s’accompagna a loro lungo la via, in quel primo giorno dopo il sabato, che è il giorno della risurrezione. Il centro della loro vita era proprio la persona umana di Gesù. Ne parlano come di una presenza decisiva. Certo, Pietro testimonia che quel Gesù è vivo ed è passato attraverso i «dolori della morte», da cui è stato liberato. I due discepoli diretti ad Emmaus, invece, sono sconfortati perché la speranza che avevano riposto in Gesù sembra essersi infranta proprio nella sua uccisione violenta e definitiva. «Speravamo», dicono, coniugando al passato il verbo che solo è capace di sostenere la vita di un uomo. Ma s’intuisce che al centro della loro vita c’è ancora Gesù, al punto che è Gesù in persona colui che cammina con loro, anche se i loro occhi non sono in grado di riconoscerlo.
È davvero straordinario questo racconto di Luca, che ci mostra fino a che punto sa essere vicino Gesù a chi ha fatto di lui il centro della sua vita: fino al punto di abitare anche la delusione e lo sconforto, fino al punto di riempire di senso anche la visione più nera. Dobbiamo ripartire da qui e comprendere come anche a noi è necessario rimettere al centro Gesù se vogliamo resuscitare la speranza. La verità – amara sin che si vuole ma innegabile – è che Gesù sta alla periferia della nostra vita, è magari un punto di riferimento ideale, ma dato per scontato e quindi, di fatto, ininfluente sullo scorrere reale delle decisioni e delle azioni della vita quotidiana. Assomiglia a quelle cose – addirittura a quelle persone – che sono così normali nella nostra esistenza, che nemmeno ce ne accorgiamo più. Sono come la tappezzeria, come lo sfondo entro il quale i nostri occhi cercano sempre altro, qualcosa che superi la monotonia. Gesù – ce lo dice il brano evangelico di Emmaus – abita, invece, i nostri percorsi consapevoli e forti. Accetta anche che lo si coniughi al passato, che si esprima su di lui tutta la nostra delusione, ma vuole non essere marginale e scontato. È molto meglio prendersela con Lui, ritenendolo responsabile dei nostri dolori e dei nostri fallimenti, piuttosto che condannarlo a quell’insignificanza tipica della nostra cultura distratta e autonoma. In fondo, i due diretti ad Emmaus sono arrabbiati con Gesù perché egli, «profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo», non ha mantenuto le promesse, ed è per questo che Gesù è lì con loro ed è per questo stesso motivo, però, che non sanno riconoscerlo. I due diretti ad Emmaus tutto possono essere definiti tranne che “forestieri” a Gesù, estranei a Lui e alla sua vicenda. Ne portano ancora il sapore in bocca, e sono invasi da una profonda nostalgia della sua presenza. Assomigliamo a quelle donne che li hanno sconvolti, ma di cui non hanno saputo cogliere l’amore. Assomigliamo soprattutto a Maria di Magdala, che rimane lì, fuori dal sepolcro vuoto, tutta preoccupata perché le hanno portato via il corpo del Maestro: il Signore sta al centro del suo cuore, è al vertice dei suoi pensieri, e la stessa cosa si può dire dei discepoli di Emmaus.
Ecco, questo è l’unico atteggiamento umano che è veramente aperto alla presenza del Risorto. Egli si rende presente, si fa compagno di strada, si spende a correggere le nostre delusioni, ci aiuta a comprendere la Parola di Dio e a confrontarla con le nostre povere parole, si siede alla nostra mensa nonostante debba andare oltre, accetta la convivialità dei nostri discorsi, spezza il pane con noi e per noi. Tutto questo può accadere se Egli abita i nostri cuori, anche sotto la veste della delusione e della fatica. Quale fortuna noi abbiamo ad avere qualcuno che celebra l’Eucaristia in mezzo alle nostre case, qualcuno che possa incrociare le nostre domande e cercare di dare loro risposta, qualcuno che possa ascoltare le nostre lamentele e dirci magari quel «stolti e lenti di cuore» che rimette in circolo la speranza. Un prete, un padre, una madre, un fratello, una sorella, un amico. Dobbiamo recuperare questa concretezza della presenza di Gesù nelle nostre famiglie, nella nostra comunità. La fede non è un ricordo sbiadito, ma è un incontro sempre rinnovato.