La storiella della «vedova ammazzamariti» – che alcuni sadducei raccontano a Gesù per fargli prendere una posizione sulla questione della risurrezione (che li vedeva contrapposti ai farisei) – è un capolavoro di insensibilità. Essa dipinge il matrimonio come un contratto di possesso del marito sulla moglie e pretende di descrivere l’aldilà come lo stato in cui questo possesso diviene definitivo: nel caso della donna che ha avuto sette mariti, è dunque impossibile accertare il possessore, per cui – concludono questi saccenti aristocratici – non esiste alcuna risurrezione, perché Dio, poveretto, non potrebbe risolvere questo grave problema… di proprietà. La risposta di Gesù è molto precisa e accetta di stare sul terreno dei suoi interlocutori. Naturalmente egli proclama chiaramente la prospettiva della risurrezione e della vita ultraterrena, ma sconvolge soprattutto la logica con cui i sadducei ragionavano. La storiella, così insulsa, ha, però, il vantaggio di voler legare strettamente la vita terrena con quella ultraterrena, e questo è quello che fa anche Gesù nella sua risposta, invertendo però i rapporti: i sadducei volevano dipingere una vita ultraterrena che ricopiasse quella terrena, Gesù invece sostiene proprio il contrario e invita a vivere quaggiù già tenendo conto del destino di eternità che ci aspetta. Quindi – per stare alla storiella – siccome nell’aldilà non c’è alcun possesso di nessuno con nessuno, già qui ogni relazione umana – e a maggior ragione quella coniugale – va vissuta nella dimensione dell’amore e del dono: non si prende moglie e marito come si acquista una cosa e non si vive, quindi, la relazione coniugale come la gestione di un affare, come una cosa tra le altre. Già qui si aprirebbe un versante di riflessione molto profonda, perché ho il sospetto che oggi il matrimonio viva schiacciato tra le mille preoccupazioni del lavoro e dello svago, senza riuscire ad essere il perno attorno a cui ruota la vita di relazione di quell’uomo e di quella donna che hanno deciso di entrare nel mistero dell’unica carne.
Ma credo che la riflessione sia più ampia e riguardi in generale il modo di vivere quaggiù, che non è adeguato al fatto che questa vita è destinata a sfociare nell’eternità. Ciò che non prendiamo seriamente in considerazione è proprio la risurrezione del corpo come esito finale della vita terrena. Noi continuiamo a pensare all’eternità – che non riusciamo a definire se non con delle immagini – come ad un destino dell’anima, impalpabile. Anche i nostri cari defunti li pensiamo alla stregua di fantasmi disincarnati. Ebbene, non è così. Gesù invita a pensare la nostra vita come un tutt’uno, un unico percorso in cui l’eternità è come il faro che illumina l’oggi, ma è l’oggi a costruire giorno per giorno la sostanza dell’eternità stessa. Pensiamo al Paradiso, di cui spesso parliamo come di un residence ammobiliato che andremo ad abitare dopo la morte. Non è così. Dio non ha creato il Paradiso, non ha edificato alcun residence. Ha creato uomini e donne come esseri capaci di amare, così che, amando in questa vita, creassero il Paradiso. È l’amore che costruisce il Paradiso. Ecco perché ciò che conta – e conta adesso, in questa vita – è amare, perché ogni gesto di amore autentico è un frammento che contiene il Tutto e costruisce il Paradiso, è come un mattone prezioso di quel residence eterno. L’eternità, cioè, è intessuta con i fili della vita terrena. Tanto è vero che il primo abitante del Regno di Dio è Cristo stesso, che in Cielo ha portato la sua vita nella carne, la sua vita pienamente umana, spesa tutta nell’amore sino addirittura al sacrificio del suo corpo e del suo sangue. Al ladrone, sulla croce, egli dice: «Oggi sarai con me nel Paradiso». Non ci pensiamo mai, ma queste parole segnano il vero rapporto che esiste tra la vita terrena e la vita eterna, ed è «oggi», l’unico vero spazio che ciascuno di noi ha per costruire il suo futuro, uno spazio che inizia con il primo vagito e si conclude con l’ultimo respiro. Ma come il venire alla luce richiama una vita precedente nel grembo materno – e forse al nascituro quella sembra essere la vera ed unica vita – così la vita terrena si spalanca su un’altra vita, finalmente definitiva, che potrebbe assomigliare proprio all’abbraccio di una madre.