VENTOTTESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno C

Se dovessimo trarre dal Vangelo odierno una indicazione statistica, dovremmo dire che il 90% sono ingrati. In realtà nove lebbrosi guariti su dieci sono impegnati nella complicata procedura di attestazione della loro guarigione: devono andare al tempio di Gerusalemme a presentarsi ai sacerdoti, e non hanno tempo da perdere.
Quell’unico che torna a ringraziare non si sogna nemmeno di andare a Gerusalemme, perché è un «eretico» samaritano, uno «straniero». Si direbbe che il suo tempio è Gesù, è lui il sacerdote che attesta la guarigione, anzi che testimonia la salvezza. Guarigione e salvezza non sono la stessa cosa.
C’è da notare che i dieci avevano fatto vita comune come gruppo di lebbrosi, nonostante uno fosse samaritano – potenza solidaristica della condizione di malattia? – e ciò che differenzia i nove dall’unico che torna a ringraziare è la percezione interiore di ciò che era successo in quello strano incontro senza contatto con Gesù. Nove avevano avuto la sensazione di essere guariti, e avevano fretta di scrivere la parola “fine” sulla loro tragica esperienza di malati. E non si trattava solo di guarigione del corpo, ma anche di guarigione sociale, di un reinserimento nella comunità. Il samaritano, che non aveva alcun obbligo di recarsi a Gerusalemme, compie un viaggio interiore e scopre qualcosa di più profondo della guarigione: ha la sensazione di essere stato salvato, e che da solo non avrebbe potuto salvarsi, e già questa percezione è fondamentale nella vita per riferirla a qualcuno, a un salvatore. Scopre che deve tornare indietro e ripartire da quell’incontro che gli ha cambiato la vita, che gliel’ha salvata. Il gesto che compie davanti a Gesù – prostrarsi – è una professione di fede e un nuovo inizio.
E a noi che cosa accade nell’incontro con il Signore? Forse ci sentiamo guariti e, come i nove, ci affrettiamo a qualche procedura religiosa di certificazione: anche la Messa domenicale, purtroppo, può essere ridotta a questo. Mentre l’Eucaristia è proprio il nostro tornare indietro a ringraziare, nella consapevolezza di essere un popolo di salvati.
Il samaritano, diversamente dagli altri nove lebbrosi, attraversa un percorso interiore e scopre qualcosa di più profondo della guarigione dalla malattia. Fa una vera professione di fede e inizia a vivere salvato da Gesù. Noi cristiani del mondo post-moderno, scrive con lucidità don Agostino, “forse ci sentiamo guariti e, come i nove, ci affrettiamo a qualche procedura religiosa di certificazione: anche la Messa domenicale, purtroppo, può essere ridotta a questo”. No, non può essere così! Saremmo persone di poca fede! E’ proprio l’Eucaristia, “il Sacramento delle trasformazioni; ha scritto papa Benedetto XVI” che ogni volta ci trasforma attraverso un viaggio interiore e ci fa tornare a ringraziare Gesù, nella consapevolezza di essere un popolo di salvati.
Molto opportuno, mi pare, l’ accenno all’ Eucaristia che è veramente momento di ringraziamento e di profondo inserimento nel mistero salvifico di Cristo. Uno solo ha capito che la guarigione arrivava da Gesù: per lui il cammino verso Gerusalemme non era stato solo un avvicinarsi alla conclusione “ufficiale”, della sua tragica situazione ma anche l’ elaborazione di quanto era successo. Il samaritano si è percepito guarito ma anche salvato, fatto nuovo. Forse il suo essere uno straniero gli ha impedito di comunicare questa esperienza agli altri nove: peccato, essere insieme, davanti a Gesù avrebbe aumentato la loro gioia. Ma questo è solo un mio pensiero