Corriere di Como, 26 ottobre 2021

Uno degli effetti meno considerati del Covid è quello che chiamerei «de-globalizzazione». È un drammatico rimpicciolimento del mondo che contrasta con l’ondata di globalizzazione in cui eravamo inseriti da qualche decennio.
Sembrava un fenomeno inarrestabile destinato a trasformare il mondo in un villaggio globale, invece il mondo si è improvvisamente ridotto entro i confini del proprio villaggio. Ed è paradossale che a de-globalizzare il mondo sia stato un fatto pandemico, ovvero diffuso in tutto il mondo.
Attenti a comprendere bene che cosa è successo. Non si tratta semplicemente di un arresto forzato (e provvisorio) della potenza viaggiante dell’homo turisticus. È una vera e propria riduzione dello sguardo. Il coronavirus è pandemico, ma a me interessa unicamente quel che succede nel luogo in cui vivo. Sì, i mezzi di comunicazione ogni tanto ci offrono una mappa mondiale tutta bella colorata, e veniamo informati in modo succinto di quanto accade in Asia, in Africa e nelle Americhe, ma con il tempo questo interesse mondiale si è notevolmente affievolito e ormai serve solo a marcare le differenze tra le diverse politiche sanitarie e verte sui successi o le lentezze delle campagne vaccinali.
Nelle ultime settimane, poi, quella vetrina mondiale è finalizzata quasi esclusivamente a mostrare quanto siamo stati bravi noi italiani. Oppure, visto da una visione ideologica diametralmente opposta, a dimostrare quanta libertà ci è stata sottratta. In verità, l’unica cartina che ci interessa veramente è quella – al massimo – della Regione Lombardia, comunque quella che fotografa la situazione della nostra città e ci consola sapere che i numeri più drammatici sono tendenti allo zero.
Sarà pure un legittimo tentativo di normalizzare l’emergenza, ma sta di fatto che la pandemia – almeno nella considerazione che in molti hanno oggi – è diventata poco più che una tranquilla malattia locale. Non sta a me giudicare questa diffusa percezione del Covid in ordine alla evoluzione del quadro sanitario globale. Sta di fatto che essa è sicuramente rassicurante sul piano psicologico individuale ed è anche positiva ai fini di una ripartenza dell’economia.
Sembra anche corrispondere a quel diffuso desiderio di «tornare come prima» che ha segnato, un anno e mezzo fa, il periodo in cui eravamo tutti chiusi in casa con tante domande e poche certezze. Ma davvero è giusto «tornare come prima»? A me pare che questa pandemia debba insegnarci due movimenti che sembrano opposti ma che in realtà devono convivere se vogliamo che la nostra umanità sia decisamente «meglio di prima».
Innanzitutto è necessario non perdere quella solidarietà tra i popoli e le culture che la pandemia ha tracciato entro un contesto negativo, e sta a noi trasformarla in una nuova opportunità positiva. Ma questo processo può avvenire concretamente solo dentro un territorio abitato e conosciuto, nella trama delle relazioni personali, piccole, preziose e belle. Se non comprendiamo che la tanto invocata libertà non è una pretesa individualistica ma è il dono che ciascuno fa all’altro, difficilmente potremo superare quel sospetto verso l’altro che la paura del contagio ha notevolmente ampliato rispetto a prima e radicato dentro di noi. Solo così non torneremo indietro, ma insieme andremo avanti.
“Tornare meglio di prima” ovvero far sì che l’esperienza epidemica del coronavirus diventi una opportunità positiva non è cosa semplice. La libertà, cadute le ideologie del mondo moderno, è divenuta la pretesa sempre più individualistica che non riconosce il prossimo, nemmeno quello dello stesso pianerottolo. Per noi cristiani la libertà non è limitata a noi stessi, ma è il dono che ciascuno fa all’altro nelle relazioni personali e nel cercare di vedere insieme la strada dove ci porta Gesù… La paura del contagio ha ampliato la distanza anche fisica verso gli altri, ma “tornare come prima” (ovvero semplicemente non aver più paura del contagio) significa tornare alla pretesa individualistica del mondo post-moderno. Come scrive in modo molto illuminato don Agostino il processo per insieme andare avanti: “può avvenire concretamente solo dentro un territorio abitato e conosciuto, nella trama delle relazioni personali, piccole, preziose e belle”.