Corriere di Como, 1 dicembre 2020
Ogni tanto riscopro l’utilità di quello strumento che sta sul tavolino davanti al divano. Un piccolo aggeggio, chiamato stranamente con un nome italiano: telecomando. È come il timone sulla nave e ti dà la sensazione di poter governare quel mare di immagini e suoni in cui il televisore ha trasformato il tuo salotto. Te ne stai comodamente seduto, e ti muovi solo pigiando dei tasti. È lo zapping (e questa volta il vocabolo è rigorosamente inglese), quell’operazione che ti permette di dare corpo a due intenzioni diverse, a seconda che lo zapping sia di ricerca – ed è la funzione più comune – o di fuga. Cioè, puoi anche fare zapping per cercare di sfuggire al monopolio dello schermo, quando cambiando canale non cambia un bel niente perché tutti stanno parlando della stessa cosa.
Un disperato zapping di fuga l’ho tentato settimana scorsa, dopo che la programmazione televisiva è stata investita dal fiume di retorica emotiva per la morte di Diego Armando Maradona. Ho fatto scorrere i canali, accettando la fatica di ascoltare le opinioni, le più disparate. Ma che dico? Erano tutte uguali, alla virgola, in una sorta di omologazione di regime, melensa e fastidiosa. Anche le immagini sembravano in fotocopia. Quando poi, dalla bocca di qualche illustre intervistato spuntava la parola «dio» o «divinità», lo zapping di fuga diventava quasi una necessità perché il limite della decenza era stato superato. Finché non sono finito sulla televendita di un materasso. E ho capito alla perfezione il consiglio: era ora di andare a dormire!
Mi è rimasta aperta una domanda, però: perché mitizzare sino alla divinizzazione quello che è stato indubbiamente (solo) un grande campione di calcio? La risposta che mi è venuta spontanea è esattamente opposta alla qualifica divina che lo stesso Maradona qualche volta dava la sensazione di assecondare. Il campione argentino è diventato un mito perché era (solo) un uomo e non certo un uomo perfetto. La gente amava in lui quella sintesi mancata tra la sua capacità di gestire un pallone e la totale inettitudine a governare la propria vita. Forse perché vi vedeva insieme la realizzazione di un sogno e l’alibi per le proprie debolezze.
Il popolo non mitizza mai un uomo per riporlo poi in una nicchia dorata di irraggiungibile perfezione. E Maradona era l’esempio di come sia possibile vivere disordinatamente, mangiandosi giorno per giorno la fortuna che il saper giocare a calcio gli aveva riservato togliendolo da una favela. Genio con i piedi e sregolatezza con la testa. Se avesse avuto genio nella testa ma non avesse saputo dribblare con i piedi, non saremmo qui a parlarne. Perché, si sa, la morte di un premio Nobel per la medicina occupa al massimo una notizia a fine telegiornale per una sera soltanto, anche se la sua scoperta scientifica avrà un lungo effetto benefico sull’umanità. La morte di Maradona ha monopolizzato l’informazione per più giorni, ma poi, una volta allentata la morsa emotiva e spenti i riflettori, la figura del Pibe de Oro resterà relegata entro i confini di un’epica da cineteca del calcio.
Come a dire che i miti non sono quasi mai dei modelli. E che il clamore mediatico non ha lo scopo di riconoscere i valori. Il grande campione Diego Armando Maradona è morto da solo. E se dovessero fargli una statua, i famosi piedi dovrebbero essere d’oro e di argilla.
Non ce l’ho con Maradona che è stato il più grande campione di calcio, da quando io sono al mondo. E’ difficile però subire il clamore mediatico, che non ha quasi mai lo scopo di riconoscere i valori che l’umanità esprime “celatamente” ogni giorno. Scrive l’autore “la morte di un premio Nobel per la medicina occupa al massimo una notizia a fine telegiornale per una sera soltanto, anche se la sua scoperta scientifica avrà un lungo effetto benefico sull’umanità”. Io aggiungerei che la morte di un martire (di ogni credo) non occupa neppure una notizia a fine telegiornale; eppure i martiri nel terzo millennio nel mondo sono in aumento…