VENTICINQUESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno A
Eccola la parabola fastidiosa! Ci immedesimiamo sempre in quelli che hanno lavorato sin dalla mattina e prendiamo le difese della loro lamentela sindacale. Quando c’è da difendere la giustizia, l’arco è subito pronto; se poi il torto l’abbiamo subito noi e l’iniquo colto in fallo è addirittura Dio, allora la freccia è già tesa pronta a scoccare. Calma, la giustizia in senso stretto è rispettata (un denaro per un giorno di lavoro come pattuito), e il fastidio prodotto dalla ingiusta monetizzazione della fatica (lo stesso salario per ore diverse) deve spostarsi su un altro piano, che è quello della relazione tra gli operai della vigna: «Questi ultimi… li hai trattati come noi». Esatto, non c’è differenza, perché la giustizia di Dio è per uomini che sono fratelli, lo stipendio è lo stesso perché è lo stipendio dato ai figli.
Quale figlio maggiore potrebbe dire alla madre, che ha riempito il piatto dei suoi figli allo stesso modo: «Io sono figlio da più anni di lui e mi hai dato lo stesso cibo di lui che è figlio da meno tempo»? Suonerebbe strana questa protesta, perché uno è figlio in forza del medesimo amore per cui un altro è figlio, e i due in forza di quel medesimo amore diventano fratelli e l’età non modifica affatto l’intensità dell’amore dei genitori. Semmai, gli ultimi, i più piccoli, hanno bisogno di una maggiore attenzione. Devo confessare che è sempre brutto vedersi misurare l’amore con lo strumento della grettezza, rivestito da una pretesa di giustizia! «Hai dato di più a lui che ha fatto di meno!». Cose che talvolta si sentono in famiglia… e anche in parrocchia!
Mi viene da leggere ancora in un altro modo la parabola fastidiosa. Non pensando a persone diverse chiamate ad ore diverse. Ma pensando che siano sempre le stesse persone, chiamate al mattino a lavorare nella vigna della vita, e bisognose però di continui richiami lungo la giornata. Sono io, chiamato e nuovamente chiamato e richiamato ancora, perché l’amore di Dio è paziente e tenace e non si rassegna alle mie lentezze e alle mie pigrizie. Allora, è bello sentire sul collo il fiato del padre, sapendo che lo stipendio è quello dei figli!
A una prima lettura la parabola appare davvero fastidiosa ed antisindacale. Mi piace però la nuova lettura proposta da don Agostino: anzichè persone diverse, chiamate ad ore diverse, sono io chiamato, nuovamente chiamato e richiamato ancora. Più sono lento e pigro nella vita, più mi distraggo dall’impegno quotidiano di cristiano, più mi pare di sentire sul collo il fiato del Padre. Il fiato paterno è davvero caldo, avvolgente, amorevole, paziente; il fiato che mi dona ogni giorno e gratuitamente la grazia e la libertà.
Mi piace questo padrone. Da sempre.
offre a ciascuno quello che serve per dar da mangiare,
giudiziosamente ad una famiglia. Un denaro.
Ai lavoratori dell’ultima ora offre la stessa moneta:
anche loro hanno, a casa, moglie e figli:
poteva porgere il contentino di un’elemosina,
ma rispetta la loro dignità che è il diritto di ogni uomo.
Dà a ciascuno (ai primi, agli ultimi) quello che serve; per vivere.
Dunque il giusto. Dunque quello che la vita stessa esige.
È un modo (uno dei tanti ) con cui Gesù ci racconta Dio.
Mi piace questo Dio. Da sempre.
Regala e non ricompensa.
Sembra incapace di contare, di pesare, di misurare.
Già, non è un padrone lui: è un padre.
E poi questo padrone/ padre valuta e soppesa anche le ore vuote del’attesa; le riconosce come fatica, persino più pesante di quella “buona” del lavoro.