Corriere di Como, 16 giugno 2020
Negli Stati Uniti la situazione è magmatica. Alla pandemia di Covid-19 – in cui è il primo Paese del mondo per numero di contagiati e di morti – s’unisce l’ondata di protesta degli afroamericani per la morte di George Floyd, ucciso dalla polizia a Minneapolis durante un arresto violento. Il tema del razzismo – decisamente endemico nella società statunitense – è tornato in primo piano, e si direbbe esploso con virulenza, con il rischio di contagiare anche altri Paesi occidentali. Un episodio veramente brutto di questa protesta di piazza è l’abbattimento di alcune statue che, a giudizio dei manifestanti, richiamano un passato schiavista e colonialista che continuerebbe ad avere un influsso sul presente in fenomeni di emarginazione della componente non bianca della popolazione.
Insieme a schiavisti e generali sudisti, c’è anche Cristoforo Colombo, di cui alcune statue sono state abbattute, altre vandalizzate. I più conoscono del navigatore genovese solo la cosiddetta «scoperta dell’America» con lo sbarco in un’isola dell’arcipelago delle Bahamas il 12 ottobre 1492. Ma bisogna aspettare tre secoli perché egli abbia un posto nell’iconografia nordamericana, preludio ad una vera e propria celebrazione, anche un po’ romanzata, nell’Ottocento. Nel 1934 il presidente Roosevelt istituì addirittura il Columbus Day, che divenne una delle principali festività statunitensi, soprattutto per le numerose comunità italiane e irlandesi presenti nel Paese nordamericano.
Ma, a partire dalle celebrazioni per il quinto centenario della scoperta dell’America, trent’anni fa, cominciò una attenta revisione storica di Cristoforo Colombo, soprattutto circa quanto avvenne dopo l’approdo sull’isola di San Salvador e con i successivi viaggi, in relazione alle conseguenze che certe sue decisioni ebbero sul colonialismo spagnolo e sulle condizioni degli indios e dei nativi americani. Come spesso accade, quando si entra nelle pieghe della storia, si moltiplicano magari le luci ma si scoprono anche le ombre.
Ora, giudicare la storia del Cinquecento con i criteri del ventunesimo secolo non è mai un’operazione corretta. Poco del nostro passato uscirebbe indenne da una simile disamina. E le statue? Esse sono anzitutto un patrimonio artistico e il segnale di una sedimentazione storiografica sempre sottoponibile a revisione. Ma con il metodo giusto, che consiste nel continuare a discutere sui fatti e sulle idee a partire dalle nuove acquisizioni, senza ricorrere a barbare scorciatoie iconoclaste. La liberta – anche la libertà di ricerca storica – si costruisce intelligentemente aggiungendo e non violentemente togliendo. Prendersela con le statue è solo un modo imbecille per manifestare che non si vuole fare la fatica di lavorare sulla storia e che non si accetta un leale confronto con le idee altrui.
E proprio per questo fa particolarmente male scoprire che, tra questi vandali, ci sono giovani studenti che dovrebbero a maggior ragione essere animati da una sete di conoscenza più che dalla illusione di riscrivere il passato abbattendone le statue. Ci ricordiamo di quando, nel 2001, i talebani distrussero le statue di Bamiyan? O di quando, nel 2015, le milizie dell’Isis devastarono il sito archeologico di Palmira? Li abbiamo tutti stigmatizzati come profanatori della memoria dell’umanità.
Condivido. La libertà di ricerca storica si ottiene “aggiungendo” con intelligenza critica e non “togliendo” con violenza. Trovo pertanto da noi grave il recente vandalismo alla statua di Indro Montanelli, persona che va studiata in tutto l’arco della sua vita e non solo per un errore di gioventù. Tino