Corriere di Como, 12 maggio 2020
«Si sopravvive di ciò che si riceve, ma si vive di ciò che si dona». Ieri, durante il suo messaggio quotidiano da Palazzo Marino il sindaco di Milano ha letto questa frase, attribuendola a Silvia Romano (in realtà è dello psicoanalista Carl Gustav Jung). La cooperante milanese, rapita in Kenia e liberata in Somalia dopo una prigionia durata diciotto mesi, è tornata nella sua città. Profonde e significative sono quelle parole, un manifesto ideale che trova la sua verifica, però, solo dentro una scelta di vita. Altrimenti rischiano di confondersi con le frasette scritte sulla carta dei cioccolatini, che lasciano giusto il tempo di una emozione fugace ed effimera.
Certo, in un tempo di sopravvivenza come il nostro, tanti si sono trovati chiusi nella prospettiva di una pura necessità di ricevere un aiuto. Eppure resta vero che la vita si genera nel dono, e questa dinamica è ancora più comprensibile se non riduciamo il dono ad una offerta di denaro. Da questo punto di vista, mi ha molto meravigliato che nei giorni scorsi, nel tentativo di definire chi si poteva finalmente incontrare dopo il bimestre di assoluto isolamento domestico, sia stata coniata la nuova categoria degli «affetti stabili». È curioso che, in un clima di dilagante instabilità affettiva dentro il mare di fragilità che caratterizza la nostra epoca segnata dallo scardinamento proprio di quei legami considerati tradizionalmente solidi, sia spuntata questa definizione, quasi come eruzione di un desiderio sopito, di un bisogno represso, di una mancanza finalmente riconosciuta.
La solitudine a cui siamo stati costretti ha, dunque, fatto emergere che l’essenza della vita è la relazione, una relazione autentica e non passeggera. E ci siamo riscoperti bisognosi non di un generico «altro», ma di un «tu» a cui ci lega un affetto stabile. Proprio quel «tu» a cui, per prima cosa, nel momento in cui possiamo uscire di casa ci è dato il permesso di fare visita, andando finalmente oltre la comunione virtuale dei social. Quel «tu» che, solo, rende stabile una vita sconquassata da mille insicurezze, a cui si è aggiunta da qualche settimana la suprema incertezza dovuta all’imperversare del coronavirus. Mi ha meravigliato l’evocare – nel linguaggio formale della burocrazia – questa categoria degli «affetti stabili», che resiste ai numerosi «non sappiamo» pronunciati con grande onestà dai sacerdoti della scienza e che sembra riuscire a dissolvere la liquidità delle nostre relazioni.
E pensavo questo alla luce anche dell’elenco di numeri che riceviamo quotidianamente, forse per sorreggere il nostro sforzo di sopravvivere: quanti sono i contagiati, i ricoverati in terapia intensiva, i guariti, i morti. Numeri che qualche volta diventano nomi: sono coloro che conosciamo, di cui ci siamo preoccupati, per cui abbiamo magari pregato, che abbiamo pianto in un lutto a cui è stata negata ogni pur minima gestualità. E questo prender volto dei numeri ci aiuta a considerare una cosa importante: non dobbiamo mai dimenticare che dietro alla freddezza statistica dei numeri ci sono sempre persone, storie di vita, e vite magari donate.
Già. «Si sopravvive di ciò che si riceve, ma si vive di ciò che si dona». E quel «ciò» che si riceve o si dona, se siamo umani, non sono mai soltanto cose.
Probabilmente molti di noi si sono auto analizzati, si sono migliorati e hanno capito tante cose.