Corriere di Como, 10 marzo 2020
«Corri piano!». È un’espressione che riassume molto bene una doppia intenzione. La usa la mamma con il proprio bambino, quando è preoccupata che non si faccia male, ma è pure interessata che possa giocare e divertirsi. In realtà il correre e l’andare piano sono in contraddizione tra di loro: se corri non puoi andare piano, e se vai piano non puoi correre. La stessa cosa ci sta succedendo in queste settimane di contagio da coronavirus. Domenica sono arrivate dal Governo delle regole di comportamento che cercano di modificare il nostro stile di vita per contribuire a rallentare la diffusione del contagio ed evitare così una grave emergenza per il nostro servizio sanitario, vicino al collasso se i numeri continuano a crescere con lo stesso ritmo degli ultimi giorni.
Ora, nelle ultime settimane abbiamo ricevuto più volte la sensazione che si fosse preoccupati di quello che poteva capitare – e che poi è capitato – ma che insieme si volesse attutire l’allarme sociale. Insomma, come una mamma, si voleva metterci le briglie ma allo stesso tempo si voleva garantire il più possibile le nostre libertà individuali. Quindi: nessun assembramento, ma guai a spegnere le città negando la gaia socialità del rito dell’aperitivo serale! Abbiamo dovuto scoprire a nostre spese che così non funziona, perché purtroppo a comandare il gioco è uno che corre veloce e che si insinua alla perfezione nelle debolezze della nostra libertà.
Sia chiaro, il coronavirus è riuscito a mietere vittime in una nazione come la Cina in cui il «corri piano» non esiste e dove c’è stato solo un perentorio «non correre», che però è stato rispettato – magari solo per il timore della punizione del regime – e a qualcosa sembra sia servito. Invece, è chiaro che si apre una falla enorme per il dilagare del virus, laddove si ha la pretesa di farlo correre piano, lasciando che anche noi però corriamo piano, cioè adattiamo le regole ai nostri bisogni individuali, a quelli che in fondo consideriamo sacrosante salvaguardie della libertà, in nome del diritto di gestire la propria vita, ciascuno a modo suo.
Ma non funziona così: quando il nemico comune di tutti noi è subdolo e nemmeno la scienza lo conosce, le regole per provare a combatterlo devono essere poche chiare e condivise, ragionevoli quel tanto che basta a capirne le motivazioni, ma strette come una trincea in cui intraprendere una estenuante guerra di posizione. Siamo ancora liberi? Sì, ma la parola «libertà» è vera se risuona nell’unico modo possibile, come «responsabilità», e se dal cassetto delle parole in disuso se ne tira fuori una che sembra aver perduto ogni valenza sociale, «sacrificio».
A pensarci bene un sacrificio si può farlo solo se si è liberi e si rinuncia responsabilmente a qualcosa che si avrebbe il diritto di scegliere. Ecco perché uno Stato democratico può ordinare un determinato comportamento, ma la responsabilità può solo chiederla ai suoi cittadini. Se però il mio sacrificio unito al tuo forma una grande barriera sociale, dovremmo essere felici di farlo se si può anche solo sperare che salvi vite umane.
Il coronavirus, ormai lo sappiamo, corre veloce. La scienza per sconfiggerlo ha i suoi tempi, lenti e complicati, ed è costretta ad andare piano. Solo la nostra responsabilità oggi è la trincea in cui, se non possiamo fermare Covid 19, almeno possiamo farlo «correre piano».