Colpo di testa 131 / Da 18 secoli sono finite le mezze stagioni

Corriere di Como, 1 ottobre 2019

«Devi sapere che il mondo è invecchiato e che non ha più quel vigore e quella forza sui quali prima poggiava. Ed è il mondo stesso che parla e testimonia il proprio tramonto. Non ci sono più così tante piogge in inverno per nutrire le sementi, non c’è più il solito calore in estate per fare maturare i frutti, né la primavera sorride più del suo bel clima, né l’autunno è così fecondo dei prodotti degli alberi. Sicché nessuno deve meravigliarsi che nel mondo ogni cosa abbia cominciato a venir meno, dal momento che il mondo stesso ormai è sfiancato e prossimo alla fine». Non sono parole tratte da qualche manifesto ambientalista del ventunesimo secolo, ma sono l’attestazione del cambiamento climatico fatta da un vescovo cristiano del nord Africa, Cipriano, a metà del terzo secolo.

Come? Già diciotto secoli fa le stagioni non erano più quelle di una volta? Non solo. Se si deve dar credito alla tesi dello storico statunitense Hyle Harper, la gigantesca costruzione imperiale romana crollò proprio sotto i colpi capricciosi degli sconvolgimenti climatici che investirono l’impero a partire dalla metà del secondo secolo. Non le invasioni dei barbari o la corruzione civile e morale provocarono la rovina dell’impero romano, dunque, ma furono i prolungati periodi di siccità a spingere le popolazioni nordiche verso sud. E fu un cambiamento climatico a rendere i nuclei urbani sovraffollati l’habitat ideale per la diffusione di germi e pandemie spaventose che sconvolsero la demografia. Insomma, la colpa fu dell’uomo, ma anche di un clima che, dopo gli anni del caldo-umido ottimale, divenne imprevedibile e ingovernabile.

Per contestualizzare le parole del vescovo africano del terzo secolo, bisogna ricordare che egli le scrisse per difendere i cristiani dalle accuse formulate dai pagani di essere la causa di cotanti flagelli e dell’imminente fine del mondo. No – scrive il cristiano Cipriano al pagano Demetriano, mostrando una moderna sensibilità ambientale – sono solo il frutto di un cambiamento climatico.

Del resto, tutte le volte che finisce un mondo, i nostalgici sono propensi a presagire allarmisticamente la fine del mondo. Invece sono due cose diverse. I mondi cambiano, il mondo resta. Ma vale anche oggi per noi, cittadini, divenuti numerosissimi, di un pianeta malato? La discussione è aperta e si può anche manifestare, più o meno folkloristicamente. Ad offrire risposte, però, non può essere la piazza, ma deve essere la scienza. Servono a poco emozioni belle e passeggere da portare in giro per le strade con cartelli colorati pieni di frasi fatte. Urgono motivazioni date da persone che studiano, analizzano, discutono (perché l’unanimità sui temi ambientali non c’è) e formulano modelli scientifici, mettendoli sui tavoli della finanza e della politica, cioè di chi può effettivamente attuare le decisioni per cambiare le cose.

Il problema esiste, sia chiaro, al di là di ogni negazionismo, ma è molto più complesso – sia nell’impostazione che nella soluzione – di quanto lasci intendere il populismo ambientalista di Greta Thunberg. «Vi terremo d’occhio», ha detto con tono astioso all’incontro delle Nazioni Unite sul clima, arrogandosi un ruolo che richiede un’autorità e una competenza scientifica che la giovane svedese non ha.

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