Colpo di testa 104 / Prima giovani, poi anziani… Senza mai sentirsi maturi

Corriere di Como, 12 febbraio 2019

Qualcuno mi ha fatto notare la crudezza dell’espressione con cui, una settimana fa, ho definito certi adulti come «adolescenti cresciuti». Il mio non voleva essere un giudizio, ma la semplice constatazione di un disagio, che talvolta non è nemmeno avvertito e non viene riconosciuto proprio da chi ce l’ha. Ci ripensavo sfogliando le pagine dell’ultimo numero dell’inserto culturale del Corriere della Sera “La Lettura”, che dedica alcuni interessanti articoli al tema delle età della vita, i cui riti di passaggio sono divenuti sempre più evanescenti. Nell’intervista allo psicoanalista dell’età evolutiva Massimo Ammaniti, compare una parola che, con un linguaggio più scientifico, codifica quella mia espressione: si parla apertamente di «adultescenza», come di un drammatico allungamento di una fase della vita, che dovrebbe essere di passaggio verso la giovinezza e, invece, invade anche l’età adulta, quasi annullandola, tanto da spostare in avanti l’età della maturità: essa, ai nostri giorni, comincerebbe solo a 46 anni, mentre nell’Antico Egitto si era maturi a 17 anni, e alla fine del XIX secolo verso i 29 anni.

Certo, questi sono numeri legati all’anagrafe, mentre per la determinazione della nostra età è molto più importante la percezione che ciascuno di noi ha di se stesso. È così, e questo rende ancora più rischiosa la semplificazione che caratterizza il sentire comune di oggi proprio in riferimento alla percezione della propria età: o si è giovani o si è vecchi, e l’essere giovani è portato il più avanti possibile, perché l’essere vecchi coincide con la prospettiva dell’essere considerati inutili.

L’età della maturità è vista, quindi, con orrore e con un senso di noia, perché coincide con l’età in cui bisogna assumersi le responsabilità, compresa quella di dover dire dei no (ai figli, ma anche a se stessi) e diventare così antipatici. Meglio, allora, cercare di prolungare il più possibile la giovinezza – ma forse essa è ancora l’adolescenza! – per farla poi sfociare direttamente nella terza età. Eccoci, appunto, alla cruda realtà della cosiddetta «adultescenza».

Questo fenomeno – che riesce a mettere d’accordo l’antropologo, lo psicologo e il demografo (come mostra l’inserto del Corriere) – sul versante più strettamente pedagogico veicola un indirizzo educativo che potremmo identificare come «giovanilismo». Siccome essere vecchi è brutto e noioso e fa sentire inutili, meglio impegnare tutte le risorse nella ricerca di una perenne giovinezza. Quasi tutte le agenzie educative più importanti hanno di fatto deciso che l’ideale della vita umana non è affatto aiutare a diventare adulti, ma fornire le basi per rimanere giovani. L’unico complimento veramente tale che ti possono fare è che sei giovane o, almeno, quando l’anagrafe non ti sorregge più, che sei giovanile. Se vogliono insultarti, invece, ti diranno che sei vecchio o, quando anagraficamente sei ancora giovane, che sei già vecchio.

Questo «giovanilismo» oggi imperante è davvero rischioso, perché a lungo andare fa scivolare ancora più in avanti l’«adultescenza». Facendoci dimenticare che la saggezza della vecchiaia potrà essere assaporata, solo se la giovinezza ha trovato il coraggio e la fatica di sedimentarsi nella maturità.

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